Blog

La cura delle dipendenze patologiche ha bisogno di filosofia. Di Maddalena Bisollo

Nullus medicus nisi philosophus – Nessuno è medico se non è anche filosofo.

(Galeno di Pergamo)

[Quanto segue è un estratto delle riflessioni affrontate nel contesto di due webinar organizzati dalla SITD Società Italiana Tossicodipendenze, sezione Triveneto, tra ottobre 2023 e gennaio 2024. Durante questi due appuntamenti ampia rilevanza è stata data al contributo della filosofia. E’ online il video integrale del webinar Sfide etiche delle dipendenze patologiche]

 

Quello delle dipendenze patologiche è un ambito della cura ricco di complessità come sanno bene tutti coloro che vi operano, che si occupino di prevenzione, di riabilitazione o di riduzione del danno, che lavorino in un SerD, in una comunità terapeutica o in un drop-in.

Queste complessità comprendono sfide cliniche ed educative, ma anche sfide di tipo etico-filosofico.

Non sempre queste complessità vengono prese in esame, non solo in letteratura ma – il che è ancora più problematico – sul campo ovvero nei luoghi deputati alla cura. Maurizio Fea, psichiatra presso il SerD di Pavia, arriva ad affermare che “parte degli errori clinici che si commettono nelle decisioni terapeutiche dipendono dalla bassa propensione a riflettere sui riferimenti etici che orientano e supportano le decisioni e sul come questi riferimenti se non vengono riconosciuti nel loro valore, vadano sostituendosi in modo inappropriato ai criteri scientifici e professionali” (2009). Dunque, la mancata consapevolezza del ruolo rivestito dall’etica comporta ricadute sul piano della decisione clinica con il rischio elevato di nuocere al paziente poiché, se ci pensiamo, le nostre azioni non cadono mai così lontano dall’albero delle nostre idee.

Va ricordato che la cura delle dipendenze patologiche nacque in un periodo di rivoluzione paradigmatica, ovvero quando iniziavano ad alzarsi le prime voci che segnalavano la “crisi” del paradigma biomedico e sostenevano la necessità di una sua integrazione con una prospettiva biopsicosociale e patient-centered. Fa parte di queste voci naturalmente anche quella potente di Franco Basaglia nel contesto psichiatrico.[1]

La dipendenza patologica da sostanze stupefacenti era stata inizialmente considerata come una problematica da combattere in quanto “vizio” che conduceva a dissoluzione morale. Solo negli anni Ottanta fu riconosciuta come una patologia di cui si occuparono, prima di tutto, i neonati centri di salute mentale. Trattare la “tossicodipendenza” come malattia, da un lato promuoveva certamente un superamento dello stigma sociale e morale, dall’altra parte significava inscriverla nel contesto di una medicina prevalentemente desease centered che faceva suo l’obiettivo di muovere guerra a quella che era insieme una malattia e una piaga sociale. Fu il movimento della riduzione del danno a rappresentare invece la maggiore spinta in direzione di una cura che fosse patient-centered in questo ambito, rompendo gli schemi della tradizionale “lotta alla droga”.

Nel contesto della medicina e in generale della cura delle dipendenze da sostanze psicoattive, esistono originariamente quindi due orizzonti filosofici principali cui i curanti fanno riferimento.

  • Il primo, che possiamo definire terapeutico classico e desease centered, il quale assume che il senso della cura sia orientato alla lotta contro la patologia-dipendenza e diretto alla guarigione intesa in particolare come remissione dei sintomi e astinenza. Entro questo orizzonte di senso si organizzarono i primi servizi e le pratiche di cura (comunità terapeutiche, CSM, SerT). Non solo: è a partire da questo orizzonte di senso che il sistema dei servizi, essendo orientato all’astinenza, organizza inizialmente le cosiddette “soglie di accesso”: qui “l’altezza (della soglia) segnala la pregiudiziale dell’adesione dell’utente agli obiettivi, anzi all’obiettivo (prefissato) del programma” che infine è l’astinenza (Zuffa, p. 58). La cura per eccellenza e di ordine superiore appare accessibile solo a chi sa “meritare” un certo percorso e superare prove di responsabilità, mentre per tutti gli altri c’era (e c’è) la cosiddetta bassa soglia. Essa rischia di essere intesa in questo orizzonte come un insieme di interventi, cure e servizi di second’ordine perché hanno obiettivi di second’ordine, che si rivolgono a pazienti anch’essi di second’ordine, seguiti da operatori che lavorano in un contesto di cure di livello più basso nel senso di “inferiore” o comunque di tipo ancillare e propedeutico allo sviluppo di motivazioni e percorsi (cfr. Misure per la PPC, 2009).
  • Il secondo orizzonte filosofico è quello della riduzione del danno. Qui il senso della cura non è orientato alla guarigione/astinenza ma al lenire le sofferenze del consumatore. Quindi in questo caso è l’astinenza a diventare un obiettivo secondario. Le cure prestate sia al consumatore non patologico che al consumatore compulsivo sono dirette innanzitutto a un uso controllato e responsabile della sostanza. Entro questo orizzonte di senso, i servizi di bassa soglia sono intesi come servizi a “larga” soglia, ovvero come servizi capaci di raggiungere quante più persone bisognose possibile. I richiedenti cura sono accolti in base alla loro specificità da operatori della cura che hanno sviluppato la capacità di rispondere alle esigenze particolari di ciascuno.

La spinta al sistema della cura data dalla filosofia della riduzione del danno è stata, a partire dagli anni Ottanta, ed è ancora a oggi quella ad abbattere le soglie di accesso perché tutti i servizi siano egualmente accessibili nell’ottica di un welfare inclusivo e non selettivo.

Certamente le due filosofie della cura possono entrare in conflitto, sia nell’approccio del singolo medico o operatore della cura al singolo paziente, sia nell’interpretazione del proprio mandato in rapporto al servizio in cui si lavora, sia in un’ottica più ampia nelle politiche sanitarie da intraprendere. La contrapposizione è più frequente nel caso di un attaccamento rigidamente ideologico a un orizzonte di senso piuttosto che all’altro.

L’obiettivo dell’integrazione tra i servizi di alta e bassa soglia prevede invece che si riconosca un gradiente di verità a ognuna delle due filosofie e che si riesca a conservare quindi un doppio sguardo o, meglio, uno sguardo multiplo. Scegliere quale sguardo adottare dovrebbe sempre essere un atto consapevole e dovrebbe inserirsi sempre nel contesto della relazione tra operatore della cura e paziente.

 

ETICA E METADONE

 

Sappiamo che la riduzione del danno nella cura del paziente eroinomane si avvale oggi di farmaci agonisti oppiacei come il metadone. Il metadone può essere somministrato a scalare per alcuni mesi o a lungo termine (“a mantenimento”) per diversi anni e in alcuni casi per tutta la vita del paziente.

Sperimentato a partire dagli anni Sessanta, il metadone non solo dimostrava la sua efficacia in laboratorio ma soprattutto dimostrava di essere un tipo di terapia ben accolta dai pazienti. Va ricordato che prima delle politiche di riduzione del danno erano pochi coloro che si rivolgevano ai servizi per ricevere cure, poiché l’alta soglia era una soglia considerata da molti consumatori troppo alta e tanti non volevano o potevano scegliere l’astinenza come obiettivo di un programma terapeutico. Molte persone bisognose restavano perciò escluse dalle cure per opera di un sistema sanitario di fatto discriminatorio

Il metadone consentiva di lenire le sofferenze legate al consumo compulsivo di eroina senza andare incontro ai dolori dell’astinenza e fu un farmaco di “riduzione del danno” proprio per questo fondamentale.

Dato però che il metadone è un oppioide fu spesso sospettato di essere “dannoso”, poiché creava una “dipendenza sostitutiva” rispetto a quella provocata dall’eroina. Ancora oggi spesso si usa dire che il metadone e la burprenorfina sono “terapie sostitutive” ovvero cure che sostituiscono l’utilizzo di una sostanza stupefacente illecita.

Ma allora la somministrazione di metadone in che senso può essere definita una pratica etica?

Se il medico interpreta l’astinenza come l’obiettivo universale, potrebbe ritenere che il metadone non sia affatto un farmaco etico e in effetti c’è stato un tempo in cui medici e psichiatri erano molto restii a prescriverlo, soprattutto a lungo termine.

Un documento del 2002 e ancora oggi facilmente reperibile sul web recita:

«Eticità della terapia a scalare con sostanze sostitutive. Il giudizio medico è favorevole a questa terapia graduale, purché l’intenzionalità terapeutica sia diretta alla disassuefazione totale e alla riabilitazione sociale, libera da sostanze del tossicodipendente» (Pilotto, Alberti, 2002).

Si tratta di una posizione per la quale la terapia con metadone è considerata un bene per il paziente solo se l’obiettivo del medico resta comunque e sempre quello dell’astinenza. Un obiettivo predeterminato in base al quale il medico sa che prima o poi dovrà procedere con uno scalaggio del farmaco.

Viceversa le linee guida della Regione Veneto del 1995 a firma Serpelloni, Gomma sostengono che non vi sia alcun motivo per predeterminare l’obiettivo dell’astinenza poiché è in rapporto a ogni singolo paziente che gli obiettivi devono essere stabiliti, essendoci la possibilità che uno scalaggio precoce getti il paziente in uno stato di craving (desiderio compulsivo di sostanza) e aumenti il rischio di ricaduta con conseguente pericolo per la stessa vita della persona.

Sono del medesimo parere le più recenti linee guida della World Healt Organization (2009) e del Consiglio d’Europa (2017), le quali introducono importanti considerazioni di tipo clinico, etico e terminologico nel contesto della somministrazione di oppiacei (la quale dichiaratamente non viene più definita “sostitutiva”).

Il testo recita: «Nella maggior parte dei casi, il trattamento sarà richiesto a lungo termine o anche per tutta la vita. Lo scopo dei servizi di trattamento in tali casi non è solo quello di ridurre o smettere l’uso di oppiacei, ma anche per migliorare la salute e il funzionamento sociale, per aiutare i pazienti a evitare alcuni dei più gravi conseguenze del consumo di droghe. Tale trattamento a lungo termine, comune per molte condizioni mediche, non dovrebbe essere visto come fallimento del trattamento, ma piuttosto come un modo di prolungare la vita e migliorare la qualità della vita, sostenere il processo di cambiamento naturale e a lungo termine e recupero».

Se quindi è soddisfatto l’obiettivo di lenire le sofferenze del paziente legate alla compulsione all’uso di eroina, alla modalità iniettiva di utilizzo della sostanza e al rischio di overdose e morte precoce, la pratica è perfettamente etica, né va intesa come un “fallimento” o una pratica di second’ordine: essa in alcuni casi è proprio la cura più giusta, pertinente, opportuna. Come già detto, la guarigione o l’astinenza non possono essere perseguiti “a ogni costo”, non al costo di sottoporre il paziente a inutile sofferenza in violazione del principio di non maleficienza.

D’altra parte, è chiaro che la cura non ruoterà solo intorno al farmaco, poiché esso frena l’appetito ma non ha potere sul desiderio. Frena la fame di sostanza ma non toglie alla sostanza quell’alone di desiderabilità legato ai significati di cui essa viene rivestita dal soggetto. Per questo si rendono necessari la psicoterapia e un approccio multidisciplinare che a mio parere dovrebbe comprendere anche una cura (filosofica) dei pensieri, dei valori, delle domande sul senso dell’esistenza e della cura.

LE COMPETENZE FILOSOFICHE NELLA RELAZIONE TERAPEUTICA

 

La relazione tra curante e paziente è ciò su cui è innanzitutto occorre interrogarsi, affinché sia dato quanto più spazio possibile all’emersione dei bisogni concreti di ogni singolo richiedente cura.

Le istituzioni sanitarie oggi dichiarano ampiamente la propria intenzione volta al rispetto del cosiddetto paradigma biopsicosociale. Occorre però riflettere se tale paradigma sia davvero soddisfatto e per farlo appare necessario guardare al lavoro quotidiano che si svolge sul campo e in altri termini al lavoro svolto nelle diverse realtà della cura dall’equipe terapeutico-educativa che con le sue decisioni e il suo operato istituisce l’istituzione ossia rende l’istituzione ciò che essa davvero è.

Va esplicitato che non è affatto semplice incontrare il paziente su un piano non di sola applicazione di “tecniche” di cura ma di umanità, cessando di mettere al primo posto la malattia e incontrando piuttosto la sofferenza di colui o colei che chiede cura. Cosicché l’operatore della cura che si pone in relazione al/alla paziente in questo modo va incontro a difficoltà non indifferenti e si espone alla possibilità elevata di incorrere in una forma di stress etico che può comprometterne la serenità e ledere la relazione terapeutico-educativa. Infatti, in un lavoro di cura che pone al centro la relazione interumana, ci si espone all’incertezza che deriva dall’avere a che fare non semplicemente con una “malattia cronica recidivante del cervello” – come la dipendenza viene definita in una prospettiva neo-organicistica –  ma con un essere umano nella sua interezza e singolarità, la quale sempre eccede le categorie diagnostiche. Qui ci si rende conto che non esistono risposte preconfezionate e che occorre ogni volta domandarsi quale sia il bene del paziente e se lo stiamo davvero rispettando. Bisogna porsi interrogativi di tipo etico che devono essere presi in seria considerazione anche per evitare dolorose “ferite etiche” e perfino “burnout etici” che sono più diffusi tra gli operatori di quanto solitamente non si pensi.

L’equipe terapeutica è il cuore pulsante della cura della salute mentale e delle dipendenze e, come dice bene lo psicoanalista Francesco Stoppa, è “un’istanza critica, cioè pensante” la quale ha bisogno di “dare spazio, nel lavoro istituzionale, alla complessità del fattore umano, all’incalcolabile, al non predicibile” (2023).

Secondo l’approccio bioetico di Beauchamp e Childress, c’è bisogno che gli operatori della cura apprendano a entrare in relazione col paziente con competenza filosofica, acquisendo la capacità, ogni volta che si trovano di fronte a una situazione problematica e incerta, di bilanciare precisi valori o principi di etica clinica: Autonomia, Beneficialità, Non Maleficienza, Giustizia.

  • Autonomia significa che il paziente va considerato come soggetto autonomo e quindi non solo capace di intendere e di volere ma anche capace di scegliere il migliore trattamento per sé stesso. Il paziente va quindi adeguatamente informato sulle alternative di trattamento disponibili ma non solo: egli va considerato come colui che – una volta appunto adeguatamente e ampiamente informato – è il principale decisore, colui che meglio di tutti (anche dei curanti) sa scegliere la migliore cura per sé.

Ma, si potrebbe chiedere qualcuno, il paziente con addiction è davvero da considerarsi autonomo?

Certamente, a meno che non sia in preda a una intossicazione acuta o a grave sindrome d’astinenza egli è da considerarsi un soggetto autonomo. Ovviamente esistono gradi diversi di autonomia ed è per questo che più il paziente è compromesso più il medico sente la necessità di farsi carico della scelta del migliore trattamento, magari sollecitato dal paziente stesso che a lui tende ad affidarsi totalmente. D’altra parte, non si può cedere a un eccessivo paternalismo che infantilizza il paziente e conferisce al medico (o all’infermiere, educatore, psicologo, ecc.) ogni potere decisionale.

Nella mia esperienza il mondo in particolare delle comunità terapeutiche è purtroppo ancora un mondo potentemente paternalistico, in cui le decisioni spesso vengono calate dall’alto e poco tengono in considerazione i bisogni e le voci dei singoli pazienti. Su questo tema ritornerò più tardi.

  • Beneficialità significa tenere presente che si deve fare il bene del paziente. Ma che cos’è il bene del paziente? Non sempre corrisponde a ciò che i curanti ritengono che sia. Il professionista sanitario legge la malattia come disease, disturbo e malattia descritti secondo le categorie scientifiche, mentre il paziente vive la il rapporto con la sostanza e la malattia, l’addiction, sulla propria pelle come illness e ha una visione interna. Tra i due sguardi sulla malattia non ne esiste – come abbiamo già sottolineato – uno vero, buono e giusto e l’altro sbagliato: entrambi hanno il proprio gradiente di verità. Riconoscere il bene del paziente significa dunque permettere alle due visioni del mondo di comunicare ed è per questo che è necessario porsi in ascolto del paziente, comprenderne la storia, la narrazione, gli stili di vita e di consumo, evitando uno sguardo ancora una volta eccessivamente paternalistico per cui solo il medico, lo psicologo, l’educatore o l’operatore sanitario conoscono ciò che va bene per il proprio assistito.
  • Non maleficenza vuol dire prestare attenzione a non fare danno. Quindi non causare al paziente sofferenze inutili, per esempio sottoponendolo a trattamenti ai cui obiettivi non aderisce e che non dimostrano un’efficacia. Oppure esponendolo a rischi che possono essergli risparmiati.
  • Infine, la giustizia. Qui le domande da porsi riguardano in particolare il grado di accessibilità dei servizi e l’assenza di discriminazioni nella gestione delle risorse, sempre ricordando che chiunque in Italia ha diritto alla salute e a ricevere le migliori cure disponibili.

Laddove poi vi fossero decisioni difficili in merito a risorse scarse di ordine economico che impongono al medico o al direttore di comunità di scegliere chi sì e chi no, a chi fornire una cura e a chi no, a chi sospendere un trattamento e a chi no, chiaramente questo andrà fatto sulla base di criteri il più possibile trasparenti evitando appunto possibili discriminazioni.

 

CONCLUSIONI. CONSULENZA ETICA E BIOETICA CLINICA PER UN’EQUIPE CONSAPEVOLE E DIALOGICA.

 

Il problema del bilanciamento dei valori e della riflessione sulla filosofia alla base dei trattamenti e dei servizi è una questione complessa che riguarda molto da vicino le equipe terapeutiche in qualsiasi ambito operino.

Non sempre le equipe sono coese rispetto a:

  • L’idea di che cosa sia l’addiction (es. vizio, malattia cerebrale, patologia biopsicosociale, disagio esistanziale, ecc.),
  • Quanto la dipendenza sia in grado di compromettere l’autonomia del soggetto,
  • Quanto e come il paziente vada coinvolto nell’impostazione del trattamento,
  • Quale sia l’obiettivo principale a cui si mira (lotta alla malattia/riduzione della sofferenza),
  • Che cosa debba intendersi per guarigione, se abbia a che vedere con l’astinenza o la stabilizzazione o l’educazione all’uso controllato o con qualcosa d’altro come, per esempio, la fioritura personale del paziente (human flourishing).

Tale coesione può essere in parte colmata da una formazione comune, ma appare necessaria anche l’acquisizione di competenze specifiche nell’analisi del linguaggio operativo, della filosofia della cura abbracciata dall’equipe curante oltre che nel bilanciamento dei valori in rapporto ai singoli casi complessi.

Esistono professionisti come il bioeticista clinico e il consulente etico e filosofico, poco diffuse in Italia rispetto ai paesi anglosassoni ma comunque presenti, che possono sostenere le equipe in modo molto efficace. Non si tratta di figure professionali che forniscono alle equipe terapeutiche ed educative delle direttive o che si intromettono in decisioni che solo il clinico può prendere. Piuttosto, esse trasmettono – attraverso metodologie consolidate – competenze fondamentali quanto alla riflessione etica e filosofica, rendendo quindi le equipe autonome nel bilanciare i valori in direzione delle buone pratiche di cura.

È infatti necessario che sia riconosciuto l’enorme valore rivestito dalla “vivacità del dibattito interno al gruppo dei curanti” a partire dalla quale “diviene praticabile l’ipotesi di una istituzione non statica ma in continua evoluzione, più simile a un’unità di crisi piuttosto che a un dispensario di risposte preconfezionate” (Stoppa, 2023). Strumenti come il MES – metodo di etica strategica, elaborato con il collega Luca Nave, sono proprio volti a sostenere le equipe nel processo deliberativo al fine di prendere decisioni autonome, consapevoli e responsabili. È uno strumento di decision making e di problem solving non normativo (dire cosa si deve fare) ma analitico e descrittivo (aiutare a comprendere cosa si può fare). Fornisce assistenza affinché si possa prendere in considerazione la complessità delle situazioni incontrate in rapporto ai pazienti, analizzando le diverse prospettive e i diversi corsi di azione possibili, alla ricerca della soluzione giusta per sé e per tutte le persone coinvolte nella situazione moralmente problematica.

Il bioeticista clinico e il consulente etico e filosofico possono altresì assistere i pazienti nell’indagine di questioni di senso e significato e nelle questioni etiche. Infatti, tanto gli operatori della cura quanto i pazienti sono innanzitutto esseri umani e in quanto tali cercano di orientare la propria esistenza a un senso coerente e le proprie azioni a ciò che è bene.

Anche quando ci sembra che i pazienti facciano di tutto per farsi del male, anche quando sono confusi e incoerenti, essi sono proprio come noi alla ricerca – che per loro è così spesso disperata – di fare esperienza di bene e di felicità.

Una cosa felice è una cosa riuscita. Un discorso, ad esempio. Un’impresa, una prova. Riuscita, adeguata, conforme al suo scopo: un’espressione è più o meno felice. Riuscita o adeguata al suo fine, ma non solo: felice è, in un senso ulteriore, una cosa che ha il potere di infondere vita, di ‘ricreare’, di fare attingere anche a noi, anche per poco, a una condizione d’essere più piena, più perfetta. In cui ci sentiamo ‘più vivi’. Felice in questo senso può essere un incontro, ma questo potere delle cose felici può averlo una sonata perfetta, un bel verso, o anche solo un paesaggio, una casa di campagna”. (De Monticelli, 2003, p. 290).

Spesso confondiamo la felicità con l’an-estesia ma la felicità è una pratica estetica, si nutre della bellezza dei luoghi, dei volti e delle relazioni umane e solo dove c’è bellezza può germogliare.

NOTE:

[1] Il movimento riformatore basagliano rifiutava modelli medici a base rigidamente organicista, lottava per la de-istituzionalizzazione e inaugurava una stagione in cui i curanti iniziarono a lavorare nel territorio, presso i domicili, nelle comunità dei paesi e dei villaggi con una rinnovata attenzione al paziente e ai suoi diritti.

BIBLIOGRAFIA

Arrigoni F., Nave L., Come in cielo così in terra. La cura tra medicina, filosofia e scienze umane, Unicopli, Milano, 2013.
Bertoletti S., Meringolo P., Stagnitta M., Zuffa G., Terre di confine. Soggetti, modelli, esperienze dei servizi a bassa soglia, Unicopli, Milano, 2011.
Bisollo M., Pensieri stupefacenti. La prevenzione filosofica delle tossicodipendenze, Lindau, Torino, 2020.
Beauchamp T.L., Childress J.F., Principi di etica biomedica, Editrice Le lettere, Firenze, 2009.
Cibin M., Guelfi G.P., Il trattamento con metadone, Franco Angeli, 2004.
Fea M., Manuale critico sull’affido dei farmaci oppiacei, FrancoAngeli, Milano, 2009.
Nave L., Counseling bioetico: istruzioni per l’uso (contiene metodo di etica strategica MES), Mimesis, Milano, 2020.
Pellegrino E.D., Thomasma D.C., Per il bene del paziente. Tradizione e innovazione nell’etica medica, Edizioni Paoline, Roma, 1988.
Sansoy P. (a cura di), La tossicodipendenza. Uno sguardo etico, Sapere2000 Edizioni multimediali, 2006.

Rivista Aut aut,Vol. 398: Stoppa F., «La psichiatria e il futuro della salute mentale», Il Saggiatore, 2023
Blog Pragma online: Bisollo M., «Sanpa. Una serie molto filosofica che interroga il mondo della cura».

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *