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Rubrica “Sensibilità filosofica”. La filosofia serve solo a occuparsi di Filosofia? Stefania Contesini

Il falso specchio Magritte 1928



Il cuore del filosofare per il Filosofo Pratico.
L’aspetto del filosofare che forse meglio di altri mette a fuoco l’attività di chi si occupa di pratiche filosofiche è la capacità di mettere a distanza ciò che si dice, si pensa e si fa, per comprenderlo, per interrogarlo con sguardo critico e all’occorrenza rivederlo, riformularlo e trasformarlo alla luce di quanto emerge dalla riflessione. Questo processo ci mette in guardia dall’assumere per vero, buono e giusto, senza passarlo al vaglio della ragione riflessiva, ciò in cui crediamo o a cui altri ci chiedono di dare il nostro assenso. Ci evita di essere passivi rispetto ai nostri stessi pensieri e alle parole che li esprimono, ci rende meno vulnerabili alle patologie dei discorsi retorici, dei luoghi comuni, dei giudizi mal formulati, delle affermazioni scambiate per argomentazioni. È questo il cuore dell’attività del filosofo pratico (possiamo chiamare così il professionista delle pratiche filosofiche?), il quale si sforza di assumere questa postura critico-riflessiva rispetto a se stesso e ai propri interlocutori, ma in particolare cerca di sensibilizzare e far comprendere il valore di questo modo di agire alle persone e ai i gruppi con cui si relazione nella propria attività di consulenza, guidandone l’apprendimento e l’esercizio.
In questo suo lavoro, oltre a coltivare la tradizionale vocazione teorica della filosofia, pratica una forma di riflessione situata, svolta all’interno di specifiche e individuali situazioni problematiche. In altre parole, esercita un sapere capace di combinare astrazione teoretica e immersione nella concretezza, di puntare lo sguardo filosofico su temi e situazioni che normalmente non sono letti come di pertinenza della filosofia, allargando in questo modo il campo di quanto viene considerato filosoficamente interessante e “lavorabile” ( questioni relative alla vita personale, professionale e organizzativa).

Le competenze filosofiche sono una garanzia per un  loro utilizzo a 360°?

Questa abilità nell’usare i metodi e gli strumenti della filosofia, nell’esercitare le competenze filosofiche su questioni che tradizionalmente non sono oggetto dell’indagine filosofica, dovrebbe fare del filosofo pratico il candidato ideale per un uso del pensiero critico-riflessivo a 360°, ossia nei confronti di tutte le questioni che meritano di essere pensate e su cui si può essere interpellati. Ma è davvero così? Una tale consuetudine riflessiva è sufficiente a garantire che sapremo ben utilizzare queste competenze nelle questioni che esulano da ciò che normalmente impegna la nostra ragione filosofica? Ad esempio, quando si tratta di dialogare, argomentare, esprimere giudizi, prendere posizione su questioni di natura politica, sociale, o anche relazionale (quest’ultima magari relativa al modo in cui noi stessi ci rapportiamo agli altri nella nostra vita personale e professionale). Perché a volte si ha l’impressione che il rigore e l’attenzione lascino il passo a ragionamenti meno solidi, a una minor propensione al dialogo, all’ascolto, a giudizi meno ponderati?
E’ bene dirlo, si tratta di ambiti nei confronti dei quali tante persone sembra facciano un cattivo uso delle proprie facoltà, persino quando le possiedono ben sviluppate. Basti vedere le opinioni espresse sui social su questi temi, in particolare su quelli di natura politica. E tuttavia ci interessa ipotizzare i motivi e le condizioni per cui anche chi fa del rigore del pensiero un proprio tratto distintivo non è immune dal cadere in questa trappola. 
Limiti e possibilità dell’utilizzo delle competenze filosofiche.

Quali sono i motivi, le condizioni, i meccanismi responsabili di questa “separazione”? La questione è complessa, fra le varie spiegazioni bisognerebbe considerare i processi cognitivi che ci portano a privilegiare forme di pensiero più veloci e non sempre rispettose di un atteggiamento critico, le forme di auto-accecamento che tutti noi patiamo rispetto a noi stessi e che ci impediscono di vedere con chiarezza come agiamo, la presunzione di essere più competenti di quanto in realtà non siamo, e molto altro ancora. Rispetto alla questione della presunzione di competenza, e a sua parziale giustificazione, c’è da dire che le competenze filosofiche (la competenza di concettualizzazione, argomentazione, giudizio, valutazione morale e sensibilità etica, ma l’elenco è aperto), sono molto complesse. Esse implicano conoscenze e abilità specifiche e stratificate, ma anche valori, atteggiamenti, modi di sentire, il cui esercizio proprio a causa della sua complessità è sempre in divenire, e per cui siamo sempre in apprendimento.
Ma anche ammesso che vi sia una buona padronanza di tali competenze, è bene sapere che questa, e vale per tutte le competenze, è solo una condizione necessaria ma non sufficiente per produrre un certo risultato. In sostanza, non basta possederle ma occorre anche essere nelle condizioni di esercitarle, pensare che sia opportuno e giusto farlo in una determinata situazione, e non ultimo, prendersi l’onere di farlo, ossia avere la volontà di utilizzarle.

Ma c’è dell’altro. Si tratta della difficoltà, ben conosciuta da chi si occupa di studiare le competenze, di estendere le nostre conoscenze e abilità da un ambito di applicazione a un altro. Normalmente imputiamo questo limite alle competenze tecnico-specialistiche ed è questo uno dei motivi per cui il filosofo critica la loro settorialità quando non accompagnata da un sapere più generale che permette di fare connessioni, di costruire scenari di senso, di vedere le cose da un punto di vista più ampio. Al contrario, le competenze filosofiche proprio perché “generali” dovrebbero essere trasferibili a ciascun contesto e campo di sapere.

Se da una parte questo è senz’altro vero, dall’altro esse benché generali sono al stesso tempo anche competenze specifiche (ossia hanno un contenuto disciplinare e un linguaggio specifici, dei metodi propri, ecc..) la cui estensione e trasferibilità non è automatica ma è anch’essa frutto di allenamento e apprendimento. Sebbene le esercitiamo quando facciamo consulenza filosofica o leggiamo testi di filosofia, non è garantito che sappiamo usarle altrettanto bene quando ci occupiamo di qualcosa che esula dal nostro abituale campo di attività. La trasferibilità di una competenza, per quanto trasversale e generale, non è mai garantita. La prima mossa necessaria per andare in questa direzione è saper inquadrare e voler vedere la situazione e la questione che si ha di fronte come un ambito nel quale sia utile e sensato esercitare questo tipo di competenza.

Ma anche questo non è sufficiente. A pensarci ancora un po’ si uniscono altri motivi per cui non possiamo sederci sugli allori, motivi che naturalmente richiederebbe di essere indagati e approfonditi. Ad esempio, quanto la conoscenza specifica, o meglio la mancanza di conoscenza del contesto o del problema su cui vogliamo appuntare le nostre competenze filosofiche rappresenta un limite? Se seguo solo distrattamente le questioni politiche le mie competenze filosofiche saranno sufficienti a offrirmi gli strumenti per esprimere giudizi ponderati? Se non ho competenze in ambito economico, oppure medico, fino a che punto le mie competenze filosofiche, senza una padronanza delle conoscenze di contesto e/o specialistiche sono sufficienti a orientarmi nel valutare e prendere posizione nelle diverse situazioni, e dove invece è richiesta anche una conoscenza più specifica?

Sembra inoltre che su alcuni temi, che chiamano in causa questioni ideologiche di fondo, che riguardano ad esempio l’appartenenze a famiglie politiche o scelte personali su temi sensibili, entrano in campo quelli che Morin chiamerebbe i “paradigmi nascosti”, ossia convinzioni cui apparteniamo, e che perlopiù si sottraggono al nostro pensiero ma lo orientano, diventando i contenuti a partire da cui si pensa senza essere a sua volta pensati.

Questi pochi accenni, se ci mettono in guardia dal pensare che il possesso di competenze filosofiche ci renda automaticamente “saggi” in tutte le situazioni in cui ci pronunciamo, ci consegnano al contempo una maggior responsabilità che è quella di rivolgere il pensiero critico verso quelle situazioni dalle quali in questi tempi esso sembra purtroppo essersi dileguato, e a farlo con ancora più attenzione e responsabilità.

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