Blog

Motivazione al cambiamento. Contributo alla riabilitazione e ricerca di senso nel counseling filosofico penitenziario. Giulio Toscano

carcereAbstract

Angoscia e speranza, spaesamento e perdita d’identità, rimorsi, aggressività, domanda di senso: l’universo carcerario presenta una gamma di situazioni-limite di profondo significato esistenziale. In un simile contesto, i principi e gli strumenti del counseling filosofico possono avere un ruolo importante e  significativo, come dimostrano le ormai numerose iniziative che vanno diffondendosi sul territorio. Una delle prime è stata quella portata a termine nel carcere di massima sicurezza di Catania.

Una esperienza di counseling filosofico penitenziario sollecita a riflettere su alcune caratteristiche di questa pratica filosofica che, insieme alle altre pratiche, ha contribuito negli ultimi trenta-trentacinque anni a rimettere la filosofia su quelli che erano i suoi binari originari, riportando di attualità la celebre frase di Epicuro secondo cui  “una filosofia che non cura l’anima  non è migliore di un farmaco che non è in grado di curare il corpo”. Frase il  cui significato sostanziale resta valido, al di là della comparazione negativa che rimane inscritta in quel dualismo tra anima – o mente che dir si voglia – e corpo, che appare oggi definitivamente superato, così come ogni rigida distinzione tra soggetto e oggetto e tra idealismo e realismo,dalla rivoluzione fenomenologica, alla stregua della quale l’essere psichico  non può che essere in connessione con il corpo vivo, perché solo con quest’ultimo, il Leib, che non è solo una cosa ma è anche organo dello spirito,l’uomo si apre al mondo, fa esperienza del mondo. Secondo l’icastica espressione di Merleau-Ponty, “io sono quell’animale di percezione e di movimento che si chiama corpo”: conclusione, questa della fenomenologia, che appare del resto in consonanza  con la più recente ricerca scientifica, che sempre più considera l’individuo come un unicum psicofisico. E  basta a questo proposito pensare agli studi di scienziati come Gallese e in particolare Damasio, che avvertono a loro volta come non si possa prescindere dal dato fondamentale secondo cui ciò che  caratterizza l’uomo è, innanzitutto e soprattutto, il fatto che  è un “essere incarnato”.

Ma qual è il mondo verso il quale il corpo si apre? Come ci ricorda Umberto Galimberti, umano non è il mondo nelle sue dimensioni cosmiche, ma quell’ambito molto più circoscritto dove sono le cose che ci circondano e che il corpo può raggiungere e utilizzare. Un ambito che, per il corpo incarcerato, diventa troppo angusto oltre che massimamente inospitale, sicché ben può dirsi che il carcere   continua a doversi definire una pena corporale,anche se, nel nostro tempo, la Giustizia , un volta archiviati i supplizi e i “tormenti”, colpisce direttamente non più il Korper, ossia  il corpo in quanto  res extensa, il corpo considerato come “prigione dell’anima”, bensì il Leib, ossia il corpo in quanto unità vissuta di percezione e movimento, il corpo nelle relazioni che intesse con il mondo. E’ questo, il Leib, il corpo incarcerato, che vede le sue relazioni con il mondo drasticamente ridotte, impoverite e potentemente condizionate dal particolare contesto ambientale della “istituzione totale” in cui si trova.

Se c’è un settore della società nel quale davvero le leggi non mancano, ma vengono  del tutto o quasi ignorate,a cominciare dall’art. 27 della Costituzione italiana, è proprio l’universo carcerario; e rimangono lettera morta,  tra l’altro, le Regole penitenziarie europee, la 102 ad esempio, che recita: “la carcerazione, consistendo nella privazione della libertà è di per sé una punizione, e quindi il regime di trattamento dei condannati non deve aggravare la sofferenza inerente ad essa”. In realtà, la popolazione carceraria  costituisce un gruppo ad alta vulnerabilità bio-psico-sociale. Gli effetti della detenzione sul corpo fisico  furono oggetto di una accurata ricerca del medico penitenziario Daniel Golin  negli anni ottanta del secolo scorso. Golin osservava e documentava come il carcere influisca, compromettendoli a volte in maniera irreparabile, su tutti i sensi dell’uomo, dalla vista all’olfatto, dall’udito al tatto; ma in generale, gli  studi epidemiologici sulla popolazione carceraria sono pochi e limitati, e – ad esempio –  le indagini nazionali sullo stato di salute della popolazione non includono praticamente  mai le persone detenute. Da alcuni studi  risulta  tuttavia evidente la sproporzione  nella distribuzione di numerose patologie: non solo quelle relative alle tossicodipendenze,  ma ad esempio quelle dentarie, quelle osteoarticolari, quelle gastro-intestinali, quelle cardiovascolari. Impressionante e significativo dal nostro punto di vista è,infine, il dato riguardante i disturbi nevrotici e di adattamento, che risultano presenti  tra i detenuti in misura dieci volte maggiori rispetto al resto della popolazione.  Si tratta di dati relativamente recenti, pubblicati da una rivista specializzata americana, il “Journal  of Correctional health care”.

A questa umanità sofferente si rapportano in primo luogo gli educatori, che nelle carceri svolgono spesso in condizioni difficili e sempre in numero  assolutamente inadeguato e con scarse anzi scarsissime risorse, il loro prezioso ruolo nelle attività di osservazione e di trattamento dei detenuti,  funzionali, in ipotesi e nelle intenzioni del legislatore, alla loro “risocializzazione”. Sennonché un vero ed efficace  programma riabilitativo  richiede ed esige di metter all’opera, oltre agli educatori, e naturalmente ai medici e agli psicologi, professionalità specifiche che siano in grado di misurarsi anche con il profondo malessere esistenziale prodotto dalla condizione carceraria, con i problemi di identità, di angoscia, di spaesamento, con la domanda di senso, con le reazioni di aggressività o di rassegnata e depressa passività: tutte condizioni   originate da quella situazione-limite che è il carcere, che anche e proprio per questo  può e deve diventare  un sede di elezione del counseling filosofico, la cui funzione essenziale e caratterizzante è appunto quella di prendersi cura del malessere esistenziale degli individui, promuovendo l’esercizio e il potenziamento delle risorse personali di  riflessione e razionalizzazione  dei pensieri e delle condotte,di esame critico della propria visione del mondo,di modifica o rimozione di  credenze radicate ma mai realmente elaborate,, ciò che può comportare anche l’apertura a diverse e più produttive opzioni comportamentali, e comunque ad  una comprensione più completa e profonda del proprio sé e del mondo esterno.

La verifica sul campo delle potenzialità del counseling filosofico  in  ambito penitenziario ho avuto modo di effettuarla nella casa circondariale di massima sicurezza di Catania–Bicocca, una struttura carceraria di medie dimensioni che ospita circa duecentocinquanta detenuti. La chiave di accesso al carcere in questo senso è  costituita dalle disposizioni dell’Ordinamento penitenziario che prevedono e regolano l’attività degli “assistenti volontari”  che siano, dice la norma, persone idonee all’assistenza e all’educazione, in grado quindi di partecipare all’opera “rivolta al sostegno morale dei detenuti e al loro futuro reinserimento nella vita sociale”. Disposizione, questa dell’art.78 dell’Ordinamento penitenziario, di  indubbio valore anche simbolico, perché intende promuovere quella permeabilità  tra i luoghi di detenzione  e la comunità esterna  che è  che è uno degli obiettivi da perseguire  per migliorare la carente qualità di vita dei detenuti.

Lo stimolo iniziale è consistito nella proiezione di un film che tematizzasse ad un tempo  l’importanza della relazione tra gli uomini ed il cambiamento che l’abitudine alla riflessione può indurre in ciascuno di noi; la scelta è caduta su  “Il postino”, l’ultima interpretazione di Massimo Troisi, e finita la proiezione, riallacciandomi ai suoi passaggi più significativi, ho presentato, cercando di usare parole semplici ma  non banali, il progetto di counseling. Ho subito messo in chiaro, affinché si creasse sin dall’inizio un rapporto trasparente e di reciproca fiducia, che io ero un magistrato, un magistrato del pubblico ministero (il che costituisce la caratteristica peculiare di questa esperienza): ma che dalla mia qualità di magistrato essi avrebbero dovuto cercare di prescindere del tutto, così come io promettevo di prescindere da ogni loro qualità o condizione che non fosse quella di esseri umani. Gli incontri hanno avuto frequenza settimanale, per la durata di circa otto mesi, e hanno avuto ad oggetto ora la riflessione collettiva su brani poetici  (Neruda, Henley) e passi tratti da opere filosofiche (Seneca, Epitteto, Edgar Morin), ora  la libera discussione su temi generali quali ad es, l’identità personale, o più specifici come l’individuazione degli strumenti relazionali e degli atteggiamenti più idonei a contrastare, una volta scontata la pena, il diffuso pregiudizio sociale che vorrebbe inchiodare per sempre colui che cerca di reinserirsi nel “mondo di fuori”  al suo passato di trasgressore della legge, così distruggendo tutta la parte restante della sua umanità.
Incontro dopo incontro,cresceva l’empatia, e la partecipazione di ciascuno diventava  sempre più spontanea e genuina; nelle discussioni vivaci e  a volte anche divertenti su temi impegnativi come l’amicizia, l’amore o il senso della vita,  nei commenti a qualche altro film che veniva proposto (“Il gladiatore”, “This must be the place”), così come nei “pensieri”  in forma scritta che mi venivano periodicamente consegnati, o  nello svolgersi di alcune tecniche specifiche del counseling filosofico, come il c.d. “brainstorming socratico”, certamente venivano via via manifestandosi  limiti nelle capacità critiche e autocritiche , così come  la presenza di  modelli di pensiero e di credenze che – associati in alcuni casi a una certa rigidità cognitiva – non vanno ovviamente  correlati  alla  qualità  di “delinquenti”, essendo invece   ampiamente diffusi nei gruppi e negli ambienti sociali da cui per lo più provengono i detenuti,e che rendono questi soggetti particolarmente vulnerabili alle influenze criminogene. Non è inutile sottolineare,  sotto questo profilo, la specifica valenza civile, politica e democratica del counseling penitenziario, che riesce tra l’altro a raggiungere, nel sistema chiuso ed inglobante del carcere, ove lo scambio sociale è programmaticamente impedito, individui appartenenti a fasce di popolazione che ben difficilmente verrebbero a contatto con discipline di questo tipo.
L’impressione complessiva è che gli stimoli offerti nel corso del non breve periodo nel quale si è sviluppata l’esperienza, abbiano dato qualche frutto: segnatamente come progressivo addestramento alla riflessione, al potenziamento delle capacità di ragionamento logico, al confronto con temi relativamente complessi, al riconoscimento delle ragioni degli altri.  La direzione nella quale ci si è mossi è quella delle modifiche, ove necessarie, dell’orientamento assiologico dei soggetti, avendo di mira anche e specificamente l’incremento delle competenze necessarie per assumere decisioni morali razionali.  Il tutto in un clima di progressivo benessere e di crescente affiatamento (sapevo dagli educatori che il nostro appuntamento settimanale era quello più atteso), nel quale cresceva giorno dopo giorno il senso del lavoro comune, e si strutturavano anche rapporti di amicizia e solidarietà tra persone che prima non si conoscevano nemmeno.
Così, gli stessi corpi dei detenuti riflettevano l’andamento degli incontri: e alle posture rigide e controllate, che esprimevano le iniziali diffidenze reciproche, andavano  poco a poco sostituendosi comportamenti più sciolti e più naturali, indice evidente del  maggior agio via via conquistato dai membri di quella piccola comunità.  Già dopo i primi due/tre mesi, quando cioè, intervenendo nel gruppo,  avevano cominciato a comunicarsi con sempre maggiore confidenza  parti significative dei loro vissuti, quasi tutti si lasciavano andare  ad espressioni affettive, ad esempio abbracciandosi e baciandosi  all’inizio e alla fine di ogni incontro. Ed era il loro Leib, non certo il korper, che così manifestava la benefica influenza dello “stare insieme”; se, come afferma Binswanger sulle orme di Heidegger  “essere nel mondo significa sempre essere insieme con le altre presenze”, allora sarà proprio questa relazione , se orientata verso il modus amicitiae, a promuovere le trasformazioni esistenziali necessarie a far maturare le forme in cui è possibile essere autenticamente se stessi.


Autore. Giulio Toscano, magistrato e counselor filosofico. Socio Fondatore e membro del Consiglio Direttivo di Pragma. Società Professionisti Pratiche Filosofiche.

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *