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La religione della Bio-Tecno-Medicina e il Giobbe filosofo. Luca Nave

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In occasione della mia prima lezione di Etica Clinica presso la Scuola di Specializzazione in Pediatria della Facoltà di Medicina dell’Università di Torino, mi soffermo ad ammirare questo mosaico dai colori vivaci che affianca l’ingresso dell’aula magna dell’Ospedale Infantile Regina Margerita di Torino. Il mosaico illustra un medico dalle sembianze divine (erede del Divino Ippocrate) che riceve in dono, dalla donna genuflessa, il suo neo-paziente. Da un punto di vista simbolico e rituale è un’immagine di grande effetto.

L’occasione è propizia per modificare l’inizio della lezione che mi ero preparato. Gli studenti avevano visto cento volte quell’immagine ma la filosofia fa mutare lo sguardo dal simbolo a ciò a cui questo rimanda. L’immagine, diceva Aristotele nella Poetica, è philosophoteron(“la cosa più filosofica”). Ciò che il mosaico mostra è l’associazione tra la figura del medico e del dio, ciò a cui l’indagine filosofica rimanda è la considerazione della natura-essenza della divinità. Già il Divino Ippocrate associava il medico e il dio: Iatros Philosophos Isotheos (“Il medico che diventa filosofo è come un dio”) sosteneva, ma la natura della divinità che aveva in mente il padre della medicina non è il dio che si venera oggi. Per i medici dell’antichità la divinità del medico era conferita dal connubio tra Medicina e Filosofia, oggi la divinità è santificata dall’alleanza tra la Medicina e la magica triade Scienza-Tecnica-Tecnologia: la dea si chiama Bio-Tecno-Medicina, le Università e gli Ospedali sono i templi del culto, i medici i suoi discepoli.

La dea Bio-Tecno-Medicina è la salvezza dell’umanità malata e sofferente: il messaggio che passa tramite la sua religione e i suoi discepoli è che ciò che esula dalle sue cure (diagnosi, prognosi e terapie) non salva, perché esula da ogni possibilità di intervento salvifico. Tutto il resto è stregoneria, magia, rimasugli di culture pre-scientifiche, orientaleggianti e sciamaniche.

Nella sua promessa di salute-salvezza (Salus), la religione della Bio-Tecno-Medicina è escatologica, e   dunque necessita di una teodicea; deve cioè spiegare perché, nonostante la bontà della dea Bio-Tecno-Medicina, ci sono il dolore cronico e la malattia terminale nel mondo. Ogni medico-discepolo incontra, prima o poi, il suo paziente-Giobbe che in preda al dolore che non passa o a una malattia che uccide si rivolge alla dea per chiedere tra strazi e lamenti:
“dea Bio-Tecno-Medicina, questo dolore e questa malattia non ti rivelano forse come una menzogna?”.
Se la divinità non offre risposte, il credente perde la fede e si rivolge altrove, magari verso l’oriente, tra sciamani o riti africani, purché ottenga una risposta al suo dolore e alla sofferenza.  La religione della Bio-Tecno-Medicina e i suoi discepoli cercano di arginare la fuga dei nuovi atei verso le cure diciamo New Age, aumentando culti e riti (la nuova genetica che risolve tutto è l’ultimo espediente) per accrescere la fede nella divinità e in una terra senza il male.  

Mi ritrovo così, nell’aula di un tempio della Bio-Tecno-Medicina popolata da medici specializzandi neo-discepoli del culto, a fare il Giobbe della situazione, a usare la filosofia per fare le domande difficili che possono mandare in crisi le credenze della persona più devota. Il filosofo chiede loro cosa dire e cosa fare quando la dea Bio-Tecno-Medicina è nascosta (Deus absconditus) o non mantiene le sue promesse di salvezza, quando il paziente dice che il dolore non passa e magari, in preda alla sofferenza, muore. Le domande della filosofia spostano lo sguardo, dicevamo, da ciò che si vede a ciò a cui questo rimanda. Il medico nel suo lavoro incontra corpi, le domande della filosofia spostano lo sguardo dal corpo-korper e dalla dimensione organica della patologia (Disease) all’esperienza del corpo-Leib malato vissuta dal paziente (Illness) in un certo contesto (Sickness), oppure dal Sapere/Fare Tecnico del medico all’Essere medico che incontra l’Essere persona del paziente, argomentando che la Cura della persona o è totale oppure non è Cura, ma mera terapia di corpi malati. Utilissima certo, ci salvi la dea Bio-Tecno-Medicina da tutti i mali, ma resta terapia di corpi malati, perché la Cura della persona sta altrove.

Ma serve invitare un filosofo per insegnare queste cose ai medici? In realtà il filosofo, alla Facoltà di Medicina come altrove, non ha tanto il compito di trasmettere conoscenze e saperi (Sophos) ma, se davvero Philo-sophos, di offrire i suoi attrezzi maieutici per ricercare la verità, per estrapolare pensieri e credenze, suscitare emozioni, sentimenti e intuizioni, far vivere i valori morali e le idee di vero, di buono e di giusto che conducono la vita e la professione.

La filosofia evoca le visioni del mondo delle persone e crea un ordine-confronto critico e creativo tra esse.  Se evocare e fare ordine tra le visioni del mondo significa insegnare, allora il filosofo insegna qualcosa ai medici, altrimenti torna a fare il mestiere che faceva Socrate, che non insegnava niente a nessuno perché “non sapeva nulla”: il suo compito non era trasmettere conoscenze (come i sofisti) ma far partorire e prendersi cura dei pensieri delle persone gravide e con le doglie del parto.

Le teorie, i metodi e gli strumenti di etica clinica che uso nella didattica dell’etica clinica sono espedienti che consentono di recuperare l’Ethos terapeutico di una certa filosofia, della pratica filosofica come forma di cura di sé (Foucault, Ermeneutica del soggetto, docet).   

Questo, in poche righe, è il ruolo della filosofia per la medicina. Almeno, questo è l’uso che ne faccio io all’università e in ospedale. Se poi la didattica della filosofia abbia qualcosa a che fare con la formazione della divinità (Isòtheos) del medico, non è compito del filosofo giudicarlo: saranno i pazienti che riceveranno le cure a stabilire se colui che incontrano è un Isotheos oppure un semplice tecnico di corpi malati, che svolge un utilissimo lavoro, appunto, tecnico, e “umano troppo umano”.

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