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La Filosofia corre sui social. Popsophia, Accademia e Filosofia Pratica nella terra dei “seguaci”.

Di questi tempi la filosofia si sta facendo sempre più “social”. Gran parte dei filosofi ha un profilo o una pagina su Facebook, un account Instagram o Twitter, magari anche un canale Telegram e qualcuno si trova anche su TikTok.

I social network permettono ai filosofi e alle filosofe di fare rete, di incontrarsi, di condividere e scambiare pensieri, ora anche di organizzare conferenze in diretta e in generale di allargare la propria cerchia di “contatti”. Da questo punto di vista i social possono rappresentare delle finestre sul mondo e danno modo ai filosofi di farsi conoscere e alla filosofia di diffondersi.

Tuttavia, si sa, la tecnica è solo apparentemente un mezzo del quale ci serviamo e rappresenta in realtà un fine che tutti noi, volenti o nolenti, perseguiamo. L’idea di avvalersi dei social esclusivamente come dei mezzi è piuttosto illusoria e ciascuno dovrebbe esserne consapevole.

In particolare, quella che nasce come mera “presenza” in rete e disponibilità a “entrare in contatto” per scambiare “pensieri”, diventa ben presto altro. I social inseriscono il filosofo (come tutti) in un meccanismo nel quale la ricerca di contatti intesi come “interlocutori” – man mano che la rete cresce – si trasforma fatalmente in una conquista di followers ovvero di “seguaci”. Il rapporto con i seguaci non sarà quindi via via intessuto sul modello del dialogo e dello scambio reciproco di pensieri ma del monologo: i filosofi confezionano e condividono i loro post e sotto ad essi piovono like (il corrispettivo social degli applausi a teatro) e commenti, che per lo più saranno di apprezzamento e per lo più non avranno risposta da parte di detti filosofi.

Che male c’è? Chiederà qualcuno. Anche prima dell’avvento dei social tanti filosofi di successo venivano seguiti da una schiera di fan. Tradizionalmente, inoltre, i filosofi fanno le loro conferenze senza che il pubblico intervenga o lasciando lo spazio giusto per qualche domanda finale, alla quale dedicare poi una più o meno sbrigativa risposta. Questa è anche la tendenza dei vari festival o feste della filosofia che da Modena a Roma spopolano, attirando un pubblico sempre più vasto.

In effetti, nulla di “male”. Anzi, il fatto che il pensiero filosofico si diffonda e ottenga visibilità personalmente non può che farmi piacere. Quello su cui mi interrogo piuttosto è se questo modo di fare e divulgare la filosofia sia però il più corrispondente alla vocazione originaria del filosofare e inoltre se sia il più adatto ai tempi e alla società nei quali ci troviamo. Di sicuro la filosofia dell’applauso è quella che fa “più presa”, quella idonea a una larga diffusione, quella che si sposa bene con il mondo dello spettacolo e che si inerisce con dovizia nei meccanismi del web e del social web. Qualche dubbio mi resta sul fatto che si tratti della “migliore filosofia”.

La mia riflessione, come spiegherò tra poco, non ha a che fare con la qualità intellettuale o il carisma dei filosofi social, che spesso per altro sono di buona o perfino alta levatura, bensì con le modalità comunicative adottate.

Su questioni di capacità o spessore intellettuale stanno già discutendo animatamente altri, cui lascio queste disquisizioni. Proprio sui social, in particolare, si sta venendo a creare una specie di polarizzazione tra una parte della filosofia accademica (meno social) e un’altra parte della cosiddetta popsophia (molto social). Costoro si attaccano reciprocamente a suon di post e commenti, a proposito della qualità contenutistica di post, conferenze, festival, senza in realtà instaurare tra loro nessun dialogo, e piuttosto cercando conferme dai rispettivi followers. Uno spettacolo che francamente reputo assai poco “filosofico”, non essendoci né filia (amicizia) né sofia (saggezza).

I filosofi, dunque, confliggono sui contenuti ma non si interrogano sulle modalità della loro presenza in rete e della propria comunicazione. Così l’accademia critica la popsophia perché non sarebbe abbastanza rigorosa nell’argomentazione, diffondendo una filosofia di serie B, e la popsofia giustamente difende la propria dignità filosofica, magari contrattaccando a proposito della presunta corruzione di alcuni ambienti accademici.

Prima di tornare alla riflessione sulla filosofia social, apro una breve parentesi sulla popsophia, per coloro che non avessero ben chiaro di cosa io stia parlando. La pop-filosofia si configura come un genere culturale internazionale che coniuga la riflessione filosofica con i fenomeni pop della cultura di massa, come recita lo stesso sito dell’associazione italiana per la popsophia https://popsophia.com/chi-siamo/ . Si tratta di un genere culturale e filosofico che personalmente ritengo molto interessante e fecondo e che ha l’indubbio merito di intercettare e di intrecciare temi attuali e importanti per la vita delle persone nell’odierno contesto storico e sociale. Lontana da un certo snobismo presente in alcune frange accademiche per i fenomeni della cultura di massa, la popsophia invece li incontra, li interroga, mettendosi inoltre in comunicazione con le persone di qualunque estrazione sociale e culturale.

Talvolta intesa come attività di “semplificazione dei contenuti filosofici”, la popsophia è stata spesso tacciata di pressapochismo e di banalizzazione della filosofia. In realtà il suo fine sembra piuttosto quello di “complessificare” i fenomeni di massa, di renderli meno ovvi e banali di quanto a prima vista non appaiono, e in ciò svolge un’attività filosofica di tutto rispetto.

Naturalmente è vero che il linguaggio utilizzato per la divulgazione cerca di farsi comprendere da una larga percentuale di popolazione, evitando quindi per quanto possibile gli ermetismi e i tecnicismi. Inoltre, negli eventi televisivi e online, nei video e nei post social, la necessaria brevità dei tempi della performance, può purtroppo dare un’impressione di superficialità (qualche volta, certo, più che un’impressione).

Ugualmente, io credo che molte siano le possibilità aperte da questo tipo di filosofia. C’è inoltre una forma di similitudine e di simpatia tra la Popsophia e il Movimento internazionale della consulenza e delle pratiche filosofiche, che riguarda specialmente la valenza pubblica, finanche politica della filosofia e la tendenza a rinnovare il linguaggio filosofico per renderlo più fruibile e comprensibile anche a chi non abbia una specifica formazione filosofica. Si tratta di due vocazioni e finalità comuni affatto di poco conto.

D’altra parte, la filosofia che ho scelto di praticare attraverso la consulenza e le pratiche filosofiche, non si rivolge a un “pubblico” di spettatori o di ascoltatori, ma è una forma di filosofia-in-rapporto in cui a filosofare non è solo il filosofo consulente ma insieme a lui il suo consultante (a partire da problemi urgenti nella sua vita e per i quali chiede un aiuto) o i partecipanti al gruppo di ricerca.

Le pratiche filosofiche non parlano mai dal pulpito verso un pubblico, ma sempre nella relazione viva e incarnata. Come sostiene Luce Irigaray questo fa una grande differenza quanto al linguaggio della filosofia, che così si rinnova non soltanto e non tanto a fini “divulgativi” quanto per intercettare e intrecciare le domande, i bisogni, le preoccupazioni, le sofferenze, le parole e i discorsi della singola persona o del gruppo-comunità. Inoltre, non si tratta di trasmettere alla persona o al gruppo un discorso pre-confezionato ma il discorso filosofico viene tessuto insieme, nel momento presente, e nel rispetto della specificità degli interlocutori e dell’imprevedibilità dei loro pensieri, oltre che in un’attenzione costante al loro “sentire”.

I consulenti filosofici rifiutano categoricamente l’idea di costituirsi come guru e di avere dei seguaci, poiché ciò precluderebbe ogni possibilità di con-filosofare realmente. Purtroppo, a onor del vero, accade talvolta che taluni consulenti cedano anch’essi a questa “tentazione narcisistica”, mostrando come nemmeno questa frangia della filosofia sia immune da tali derive. Tuttavia, si tratta di eccezioni, che recano in sé una palese contraddizione con la propria mission.

C’è certamente nel nostro tempo un grande bisogno di filosofia inteso come bisogno di porsi delle domande e di tentare, insieme, delle risposte. Lo attestava già Marc Sautet nel suo Socrate al caffè:

“Quando cerchiamo di capire cosa non funziona nello Stato, cosa distrugge la democrazia, compromette la giustizia, la libertà, l’uguaglianza, le relazioni tra le persone, cosa spinge gli uomini a odiarsi e a uccidersi, quando estendiamo l’esame all’insieme delle nazioni fino a immaginare il destino dell’intera umanità, cosa facciamo, allora? In verità, abbiamo mai avuto tante ragioni per filosofare?” (1998, p.7).

D’altro canto, Sautet non credeva che il modo migliore di rispondere a questo bisogno fosse la filosofia profetica altrimenti detta filosofia dal pulpito, la cui relazione con il pubblico veniva così descritta:

“I partecipanti prendono docilmente appunti, qualcuno pone una domanda e poi (se l’ “interlocutore” è bravo) tornano a casa (o in camera di albergo) sentendosi più intelligenti (sensazione che non dura a lungo)” (Ivi, p.94).

Sautet denuncia con queste parole la possibilità che la filosofia offerta a un pubblico adorante possa stordire e ingannare, trovando tra gli spettatori un gran numero di seguaci ma rivelandosi ben poco trasformativa. La postura del pubblico è passiva, è di ascolto ma anche di soggezione. Per questo Sautet definisce i seminari filosofici che mantengono una tale relazione con il pubblico “seminari passivi”, distinguendoli essenzialmente dai “seminari attivi” o “seminari d’azione”, che invece egli propone come alternativa e che fanno appunto parte delle pratiche filosofiche.

“(…) Lì la gente si toglie la maschera, si confida, si ribella, apostrofa gli altri: oppure cambia ruolo, “molla la presa”, si lascia andare, si libera dal giogo del lògos, lascia parlare i desideri, dà libero sfogo alla “creatività”…col rischio di pagarne le spese più tardi. O meglio ancora supera sé stessa, prende una boccata d’aria, respira la brezza, si strofina contro gli alberi, cammina sulle braci, si lancia nel vuoto…” (Ibidem).

In questo genere di seminario, ogni partecipante si trova direttamente coinvolto nella discussione; è un “seminario d’azione” nel quale non c’è qualcuno che parla-per-farsi-ascoltare, ma nel quale ognuno ha insieme da ascoltare e da prendere la parola. Nel seminario attivo i discorsi mettono in gioco ciascuno in rapporto con tutti gli altri, e tutti in rapporto a ciascuno.

Certamente i seminari d’azione intercettano, oltre a un “bisogno di filosofia”, anche un “bisogno di socialità”, che nella nostra società  individualista non di rado si fa sentire. Le persone spesso manifestano la necessità di “essere insieme”, di fare comunità. Questo essere-insieme creato dai seminari d’azione, tuttavia, si distingue essenzialmente da quello sperimentato seduti tra gli altri spettatori ad un festival di filosofia e anche da quello provato nell’essere tra i commentatori dei post di un noto filosofo social. È un essere-insieme diverso perfino da quello che si crea in particolari occasioni, in cui ci si ritrova insieme, vicini in una comune battaglia, desiderosi  di “farsi sentire”, di far sentire la propria voce, descritti così precisamente da Bauman:

“L’occasione per liberare la socialità è fornita talvolta da orge di compassione e carità; talaltra da scoppi di aggressività smisurata contro un nemico pubblico appena scoperto (cioè, contro qualcuno che la maggior parte degli occupanti la sfera pubblica può riconoscere come nemico privato); altre volte ancora da un evento cui moltissime persone reagiscono intensamente nello stesso momento, sincronizzando la propria gioia, come nel caso della vittoria della Nazionale ai mondiali di calcio, o il proprio dolore, come nel caso della tragica morte della principessa Diana. Il guaio di tutte queste occasioni è che si consumano rapidamente: una volta tornati alle nostre faccende quotidiane, tutto riprende a funzionare come prima, come se nulla fosse successo. E quando la fiammata di fratellanza si esaurisce, chi viveva in solitudine si ritrova di nuovo solo, mentre il mondo comune, così sfolgorante solo un momento prima, sembra più buio che mai. E dopo l’esplosione, non resta energia a sufficienza per riaccendere le luci della ribalta” (2000, p.11).

Questo ritrovarsi insieme, in un certo momento, in determinate circostanze, per particolari idee o emozioni condivise, ha un significato circoscritto; per un attimo, per qualche ora, talvolta per giorni o settimane, alcune persone hanno trovato la motivazione ed il modo di evadere dal privato e di sentirsi unite agli altri attorno ad una causa o a un sentimento comuni. Poi, però, ciascuno è di nuovo solo con sé stesso e si trova a fare i conti con la propria quotidianità in modo non molto diverso da prima.

Le pratiche filosofiche ricercano una maniera diversa di essere-insieme, che non è fondata sulla previa comunanza di un’idea o di un’emozione, ma che introduce diverse idee e diversi modi di sentire, affinché s’incontrino ma anche si scontrino, in un dialogo aperto e reciprocamente arricchente. Qui ciascuno porta la sua esperienza e il suo pensiero e si instaura un dialogo tra le differenze. In questo modo, l’esperienza di una pratica filosofica eccede realmente la sfera privata, “accomuna” in modo autentico, ed i suoi effetti non sono circoscritti al momento, ma si ripercuotono sul modo di affrontare i problemi quotidiani, di vivere i rapporti con gli altri e in generale di concepire l’esistenza.

Credo sinceramente che i filosofi non dovrebbero tanto desiderare molti followers, ma molti interlocutori. Non dovrebbero privilegiare la conferenza dal pulpito o il post su facebook per “diffondere la filosofia”, ma soprattutto impegnarsi concretamente in modalità dialogiche e pratiche. Il rischio altrimenti è che a diffondersi sia solo la filosofia di quel certo filosofo o di quella certa filosofa e non il pensiero critico e argomentativo, non la capacità di dialogare insieme e di accogliere le differenze.

Mi dispiace quanto alcuni filosofi pop patiscano, talvolta fino alle lacrime, le critiche dei colleghi accademici, come se esse creassero una ferita (narcisitica) e una rottura rispetto a un mondo che si vorrebbe fatto di consensi e di applausi o like. Specialmente quando si siano già raggiunti molti consensi fuori ma anche dentro il mondo accademico stesso, migliaia di like, migliaia di libri venduti, inviti in tv e si ha perciò sufficiente “riconoscimento”, queste lacrime che significato hanno? Una componente è di sicuro la progressiva disabitudine a considerare la critica come un modo per uscire dal proprio “mondo”, per non involgersi in un pericoloso autismo filosofico, quasi temendo che la critica sveli la propria imperfezione, una crepa, un difetto.

Nessuno è perfetto, tutti siamo passibili di critica. Io lo sono, questo articolo lo è. Lo è un filosofo accademico quanto un filosofo pop. Il punto non è essere tutti in linea, convincere tutti delle nostre idee, fare di tutti gli altri i nostri seguaci, i nostri followers. Se davvero vogliamo diffondere la filosofia e non semplicemente farci amare dal pubblico e “raggiungere il successo”, dovremmo piuttosto sospettare dei nostri seguaci e cercare invece il contraddittorio. Dovremmo promuovere molto di più le domande che non le risposte. E se è vero che si tratta di scendere nell’agorà, occorre farlo non come un profeta ma come Socrate, che sapeva di non sapere e non aveva un “pubblico” ma solo molti, ma molti interlocutori.

A tutti fa piacere un like e migliaia di like ancor di più. Tutti noi abbiamo bisogno di riconoscimento. Tutti cerchiamo visibilità, anche perché questo ci permette di farci conoscere, di ampliare il raggio delle collaborazioni lavorative e in generale di “esserci”, in un tempo in cui vale la massima “sono visibile, dunque sono”. Quindi, se volete, mettete pure un like a questo articolo, ne sarò lieta. Se vi va commentate, così capirò perché lo avete apprezzato. Se vi fa piacere criticatelo, così rifletterò più profondamente. Se lo ritenete opportuno polemizzate, così mi (e vi) interrogherò su ciò che vi ha così tanto provocati. Quello che però sarebbe davvero bello è incontrarci vis-à-vis e discuterne insieme. Perché la filosofia si fa in relazione, nella relazione viva e incarnata e solo lì corrisponde alla sua più profonda vocazione.

Per concludere, esprimo un desiderio, che è anche il mio impegno quotidiano di filosofa pratica. Che non sia solo la filosofia delle feste e dei festival, dei post e dei video su Facebook, dei like e delle reazioni, a diffondersi tra le persone. Che siano anche e soprattutto le attività filosofiche svolte nelle scuole con gli studenti e gli insegnanti, nelle aziende con i manager e i dipendenti, negli ospedali con i pazienti e con le equipe medico-infermieristiche, nelle carceri con i detenuti e con la polizia penitenziaria. Attività in cui la relazione sia viva, concreta e in cui ci sia un autentico con-filosofare (e non solo il monologo intelligente di un filosofo che si faccia applaudire).

Filosofia non è solo amore per il sapere ma anche quel sapere che nasce dall’amore, ovvero dalla relazione intersoggettiva. Se mancano la relazione e il dialogo, manca l’essenziale.

Autrice: Maddalena Bisollo

 

Bibliografia

 

Bauman Z., In search of politics, Polity Press, 1999, tr.it. La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000.

 

Sautet M., Un café pour Socrate, Paris, Laffont, 1995, tr.it, Socrate al caffè, Milano, Ponte alle Grazie, 1998.

 

 

 

 

 

 

 

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