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Il “delinquente predestinato” e la nuova funzione della filosofia come cura. Di Luca Nave

Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani.

Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete:

“Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene.”

Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

 

Film L’odio, 1995, voce narrante di Saïd, nella scena iniziale del film

 

Nel corso di un Dialogo Socratico dedicato al tema della responsabilità e rivolto a un gruppo di giovani autori di reato in “messa alla prova” dal Tribunale di Torino, Gigi, uno dei partecipanti, narra la vicenda di un suo caro amico. Si chiama Antonio, ha 17 anni e ha trascorso quasi un anno al Ferrante Aporti – carcere minorile di Torino – per scontare una condanna per spaccio di sostanze stupefacenti. “Una mattina – racconta –  all’improvviso Antonio spunta nel bar di zona e abbiamo festeggiato il suo ritorno alla libertà. Ma il giorno dopo, con sua madre tossicodipendente “old schoo”, fanno una rapina in una tabaccheria: gli sbirri li beccano e lui torna diretto al Ferrante Aporti. Mio padre dice che sono dei pivelli – aggiunge -, perché non si rapinano i locali con le telecamere per tirare su quattro monete”. Nel contesto del Dialogo Socratico, Gigi ha riassunto questa esperienza con la parola “Destino”.

Negli incontri di Pratiche Filosofiche con questi ragazzi il termine “destino” torna spesso: assume le vesti del “determinismo sociale”, ovvero dell’idea, per dirla con uno di loro, “che se nasci e cresci alla Falchera (quartiere alla periferia nord di Torino) e se da quando hai tre anni vedi gente che per vivere spaccia, ruba, fa estorsioni e ogni altra forma di delinquenza, sei ‘destinato’ a un certo tipo di vita, sei destinato cioè a diventare come loro”.

Nel Dialogo Socratico sulla responsabilità abbiamo affrontato tale questione, indirettamente, chiedendoci chi è responsabile dell’arresto di Antonio. Tutti sono convinti che il responsabile sia innanzitutto Antonio: ha il libero arbitrio e poteva rifiutarsi di andare con la madre a rapinare la tabaccheria. Ma Piero dissente: “Antonio non era davvero libero. La madre è squattrinata, il padre in carcere, come fanno a vivere? Devono chiedere l’elemosina, visto che a una tossica e a un galeotto non li assume nessuno? Mica possono mangiare sempre alla Caritas, che vita è?”. Il gruppo annuisce ma uno dei partecipanti aggiunge: “Sapete che c’è? Il vero responsabile è lo Stato: un ragazzo non dovrebbe trovarsi a vivere in quelle condizioni, essere costretto a spacciare e rubare per vivere. Antonio ha sbagliato ed è responsabile di ciò che ha fatto  ma non è giusto attribuire solo a lui la colpa”. “Però – aggiunge un altro – è Antonio a finire al Ferrante Aporti, lo Stato la passa sempre liscia”.

Questo stralcio del Dialogo Socratico apre una questione fondamentale relativa al concetto di responsabilità. Già nei poemi omerici e nella filosofia greca la responsabilità è legata alla libertà: se non sono libero di agire non sono responsabile delle mie azioni. In Grecia non c’era il termine “responsabilità” (uno dei primi testi in cui il termine compare è il Federalist di Hamilton, Jay e Madison, 1788) ma Aristotele delinea i tratti di una “teoria” della responsabilità tramite l’analisi dell’azione “dannosa”: sosteneva che un individuo è responsabile del suo operato se questo avviene in base a una libera scelta e non per condizionamenti necessitanti dovuti a leggi fisiche, psichiche o socioeconomiche. In quest’ultimo caso, infatti, la teoria del determinismo esclude la responsabilità personale o la attenua attribuendola non del tutto al singolo ma, ad esempio, alla collettività sociale. Se, dunque, la causa dell’agire è in noi ne siamo responsabili, al contrario se la causa è fuori di noi o se chi agisce non è cosciente dell’azione che compie, la quale è dunque il risultato dell’ignoranza, il soggetto non è responsabile o almeno non lo è pienamente.

Attraverso la “punizione esemplare” inflitta al reo quale unico responsabile del reato, lo Stato deresponsabilizza se stesso e le sue colpe nella misura in cui asseconda il determinismo sociale e trascura il principio di tutela dei minori fondante un “favor minoris” quale interesse costituzionale protetto e sancito dall’ultimo comma dell’art. 31 della Costituzione.

Tra gli obiettivi del progetto filosofico Dialogic Justice Community – realizzato in collaborazione con il Tribunale di Torino e le assistenti sociali dell’Ufficio Servizi Sociali Minori (USSM) – emerge la necessità di far risaltare la “centralità della persona” che si cela dietro o oltre il reo, che non è necessariamente un “deviato” o un “malato” ma un soggetto che si è trovato in difficoltà, che ha commesso azioni sbagliate di cui deve assumersi le sue responsabilità ma di cui è necessario prendersi cura (cura non è sinonimo di terapia psicologica o farmacologica). La cura della filosofia, nel contesto del DJC, si unisce alle azioni dei giudici e delle assistenti sociali per tentare di scalfire il determinismo sociale, tentare di mutare il destino di questi ragazzi aiutandoli a riflettere sulla propria visione del mondo e sul proprio “mondo”, sulle azioni che hanno commesso e sul senso della punizione che stanno scontando, con lo sguardo sempre e comunque rivolto al futuro. La filosofia offre loro nuove idee e nuovi scenari possibili, mostrando loro esempi di persone che sono riuscite a realizzare un’altra vita e a trasformare la loro libertà da “condanna” a “risorsa”.

Non si tratta di deresponsabilizzare le loro azioni o sminuire i loro atti criminosi che vanno certamente puniti secondo la Legge; la filosofia invita piuttosto a riflettere sul concetto di responsabilità in tutta la sua complessità e su quale sia il significato della punizione da infliggere loro. Isolare il “piccolo delinquente predestinato” in carcere e “buttare via la chiave” è la “giusta pena” per il senso comune, ma è davvero utile? Per la crescita di questi ragazzi certamente no, per la società ancora meno. Se ciò che hanno commesso ha generato un danno sociale, la loro punizione dovrebbe riguardare il “riparare” questo danno, fare qualcosa per aggiustare ciò che le azioni delittuose hanno rotto.

Questo è il senso del nuovo paradigma della giustizia riparativa a cui oggi la filosofia è chiamata a offrire il suo contributo e le sue cure.

 

Bibliografia

Bisollo M., Oltre la vendetta. Pratiche filosofiche di giustizia, Blog Pragma, 2022.

Curi U., Il colore dell’inferno. La pena tra vendetta e giustizia, Bollati Boringhieri, 2019.

Accossato M. (a cura di), Nemmeno mai è per sempre. Lettere abbandonate al Ferrante Aporti di Torino, AmazonLibri, 2021.

Reggio F., Giustizia dialogica. Luci e ombre della Restorative Justice, FrancoAngeli, 2010.

 

 

 

 

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