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Il danno fisico e la questione del senso. Il dolore tra medicina e filosofia. Luca Nave

Abstract.
L’articolo analizza la duplice componente del dolore: il danno fisico e la componente del senso e del significato del danno per il soggetto che prova dolore. La questione della ricerca del senso viene incarnata in particolare nel contesto della Bio-Tecno-Medicina dell’Età della Tecnica, tra medicina e pratiche di cura Evidence Based e i movimenti internazionali delle Medical Humanities e delle Pratiche Filosofiche.  


Il dolore che lacera.
Il dolore non riguarda mai solo una parte del corpo. Il male che si manifesta tramite un organo, un tessuto, un nervo s’irradia nel corpo quale totalità e strumento d’intenzionalità del soggetto nel mondo. L’esperienza del dolore crea una lacerante rottura della relazione tra il soggetto, il suo mondo e gli altri. Si manifesta sempre come un danno oggettivo nel corpo e implica sempre la ricerca di un senso del danno qual è vissuto dal soggetto che lo subisce. Una macabra dialettica tra danno fisico e male morale, tra fisiologia e simbolica, tra male del corpo e male di vivere è presente in ogni esperienza di dolore. La sensazione dolorosa implica una percezione personale. L’aumento del dolore coincide con l’aumento della lacerazione della relazione soggetto-mondo-altri, fino al dolore totale che fa chiedere al soggetto la rottura totale e definitiva di tutte le relazioni possibili. La supplichevole richiesta di “buona morte” (εὐθανασία)affonda le sue radici qui.

L’impossibile per sé.

Il soggetto è le sue relazioni possibili. Il mondo e gli altri sono lo spazio delle sue possibilità: il soggetto Ec-siste, esce da se stesso e diviene se stesso nel suo cammino nel mondo con gli altri, luogo d’apertura delle sue possibilità, delle sue mete e dei suoi desideri. Il desiderio, per inciso, è il movimento del soggetto verso gli oggetti del mondo e verso gli altri. Il dolore fa sperimentare al soggetto, quale apertura alle possibilità del mondo, l’impossibile per sé. Il possibile non risiede nelle cose perché le cose sono rese possibili dal desiderio e dal movimento possibile del soggetto nel mondo. La penna con cui si scrive è possibilità di scrittura perché il soggetto desidera scrivere e realizza questa possibilità nel movimento della scrittura; se il dolore produce un danno alla mano, il soggetto perde la sua possibilità di scrivere e la penna perde il suo statuto di strumento possibile per la scrittura.

Il dolore inchioda, paralizza, blocca la mano. Interrompe la vita del soggetto. S’innesta nella sua coscienza della corporeità, spazio d’incoscienza finché era in buona salute. Senza danni e ostacoli più o meno dolorosi il soggetto dimentica il proprio radicamento corporeo nel mondo perché il corpo è per sé invisibile e insensibile. La salute, scrive René Leriche, è “la vita nel silenzio degli organi” (1951), e suscita l’inconsapevolezza del proprio corpo. Un “pezzo di corpo” può improvvisamente rompere la quiete e il silenzio e imporsi all’attenzione esclusiva del soggetto. Il dolore sopravanza le cose essenziali della vita ordinaria, fino al punto da annientare, quando è acuto, cronico, lancinante, ogni interesse verso il mondo e gli altri. Perdita di appetito, suscettibilità, apatia, insonnia, angoscia e disgusto per l’esistenza, una sequela di pene accompagna il dolore e scolora l’esistenza del soggetto dolorante, che si scopre rinchiuso dentro le frontiere di un corpo che fa fatica a riconoscere, ma che ora impone la sua presenza. Si genera una sorta di dualità tra il proprio Sé e il proprio corpo come se fosse altro da Sé, una disparità tra la volontà di azione possibile e l’impossibilità di realizzarla. Se la gioia e il benessere sono l’espansione e l’estensione della relazione con il mondo-altri e con le possibilità che si presentano, il dolore è accaparramento, interiorità, chiusura, impotenza, distacco da tutto ciò che non è dolore.

L’impotenza della parola: il dolore tra grido e silenzio.

Il dolore rompe la relazione tra soggetti perché rende irrilevante il linguaggio e mostra l’impotenza della parola. Della parola “confortevole” di chi sta vicino al soggetto dolorante, quella parola che vorrebbe  consolare, risollevare, aiutare, mentre spesso diventa convenzionale, compassionevole e patetica; ma anche della parola “dottrinaria” dei dispositivi di senso (religioni, medicine, filosofie) che offrono una “spiegazione”, un senso e una cura al dolore vissuto dal soggetto. I soggetti confortanti e i dispositivi di senso si sforzano di comprendere il dolore vissuto da chi lo subisce e di eludere con tutti i mezzi il linguaggio, ma il dolore risiede sempre nell’interiorità del singolo soggetto. Nessuno può comprendere veramente il suo dolore: il soggetto si sforza di tradurlo agli altri che però lo possono comprendere solo per difetto, in negativo, con una traduzione che non può non tradire il senso del dolore qual è vissuto hic e nunc dal singolo soggetto.

Le manifestazioni estreme dell’impotenza della parola sono il grido e il silenzio. Il soggetto che è in preda al dolore non parla: o grida oppure sta in silenzio. Qui sta l’apoteosi del fallimento della parola e del pensiero. Nel grido c’è lo stravolgimento della voce: c’è la voce animale che, se nell’animale è segno della sua natura, nell’essere umano diventa innaturale. Il grido di dolore è alienazione, è l’inabissamento del senso. A fronte del grido, il dolore può manifestarsi anche come un dolore muto, un silenzio che grida. Il silenzio del sofferente è un silenzio dilaniante, un silenzio senza quiete, disperato. Nulla è più miserabile del silenzio e nulla è più tragico del non sapere che cosa dire al soggetto ammutolito dal dolore. Si vuole fuggire da quel silenzio, insopportabile perché simbolo d’impotenza.

Il dolore è paradosso: rende impotente la parola, che tuttavia viene ricercata dal soggetto dolorante negli attimi sospesi tra il grido e il silenzio. Il soggetto è relazione. Senza la parola di un amico, di un medico, di uno sciamano o di un compagno di sventura il soggetto non vive. Di dolore e di solitudine si muore.

La Bio-tecno-medicina come religione del tempo.  

Ora, in un mondo secolarizzato che non crede più ai grandi racconti, post moderno e pure post nichilistico, chi offre la risposta al perché del suo dolore al soggetto sofferente? Nel momento in cui si prova dolore, prima di consultare il guru, lo sciamano, il sacerdote, si consulta la Bio-Tecno-Medicina (BTM) impersonata nel proprio medico di fiducia; si va dal medico “generico” prima, dagli specialisti poi, in caso di necessità.

L’espressione Bio-Tecno-Medicina non fa riferimento al mero uso e abuso di strumenti e artefatti tecnici o tecnologici per misurare e lenire il dolore del corpo malato bensì allo sfondo, all’ambiente, al “mondo” che sta intorno al soggetto dolorante. La BTM non è solo un insieme di strumenti e competenze: con i suoi apparati, funzionari, simboli e rituali è un modo di concepire il mondo, una visione del mondo, una religione del tempo attuale che offre un senso, attribuisce significati e prospetta una cura al dolore vissuto dal soggetto.

Nella sua messianica promessa di restitutio ad integrum di ogni corpo danneggiato, di redenzione da ogni dolore e di “buona salute (salus = salvezza) per tutti nell’anno 2000” (OMS), la BTM eredita,  secolarizzandola, la missione salvifica dell’umanità della tradizione giudaico-cristiana in opposizione alla cultura del dolore della Grecia antica.

Per i greci il dolore è costitutivo dell’esistenza, è la cifra della sua caducità e della precarietà della condizione umana, rispetto alla quale non c’è speranza di salvezza. Dal tragico non ci si salva: deve essere accettato in quanto rientra nell’intima natura delle cose umane. La filosofia greca non promette speranze ma la saggezza per saper accettare il dolore e dominarlo con le forze umane. Per la tradizione giudaico cristiana il dolore è invece la conseguenza di una colpa originaria, un peccato che chiede riparazione e implica la speranza della redenzione. Jahvé è la speranza di salvezza dal male, dal dolore e dalla morte.

La BTM eredita questa tradizione perché offre una spiegazione, una cura e una speranza al soggetto dolorante che crede nei suoi dogmi, segue i suoi precetti e compie i suoi rituali. La salute è un bene assolutamente manipolabile: la salvezza dal male e dal dolore non dipende più dalla natura (medicus curat natura sanat) o da Jahvé ma dal “sapere-potere-volere” della BTM. 

Con un arsenale di spiegazioni (diagnosi, prognosi, test genetici) e di cure (antalgici, anestesia) la BTM appaga le sue promesse ed è una salvezza dell’umanità sofferente: oggi cura malattie un tempo mortali, offre un sollievo ai malati in preda ad atroci sofferenze e promette la guarigione totali di tutti i mali. Eppure, parallelamente, il dolore cronico, acuto, atroce, angosciante del singolo soggetto non passa. Anzi perdura e tortura milioni di pazienti in tutto il mondo. Soggetti con malattie “funzionali” o “psicologiche” non guariscono, non recepiscono i benefici effetti della farmaco-terapia. La popolazione di malati senza diagnosi, senza prognosi e senza un perché rappresenta una sfida per la BTM.  Incapace di comprenderli e di curarli va alla ricerca della “molecola miracolosa” che, per chi ha fede, un giorno lenirà ogni dolore provato dall’umanità.

In effetti, ogni religione ha un’escatologia, una terra promessa “senza dolore”. Ogni religione ha una teodicea, e ha il suo Giobbe. Il Giobbe che al medico chiede: “Dottore, perché proprio a me?”; e pensa: “Dottore, questo dolore che non passa non ti rivela forse come una menzogna?”. Il Giobbe della BTM è il malato deluso, con malattie senza diagnosi e senza cura o con un dolore cronico e acuto. La delusione è il contraltare dell’enfasi. Nella dialettica onnipotenza-delusione il soggetto sente di aver dato alla BTM il massimo della sua fiducia; ma tale fiducia viene tradita e allora si rivolge altrove, verso altre sapienze e altri dispositivi di senso che prospettano nuove soluzioni che esulano dalla religione della BTM. Le nuove medicine cosiddette “alternative” (omeopatiche, orientali, new age, ad esempio), nascono dalla persuasione che la medicina classica non risolva alcuni problemi fondamentali, mentre le nuove medicine sì.  Nonostante la propaganda della BTM faccia apparire tutti gli altri discorsi sapienziali e le altre pratiche terapeutiche come non assennati, tanto che anche la persona più religiosa può essere indotta a credere che, se la BTM non salva, non c’è rimedio, il Giobbe contemporaneo chiede al medico-sacerdote: “Dottore, perché proprio a me?”. La BTM ha una sua teodicea e una serie di risposte al perché del dolore; la causa è per lo più localizzata nel corpo-organismo, mentre la cura dei nefasti effetti rimanda a terapie biologiche-organiche. Non fanno eccezione le cosiddette “malattie della psiche” (“il dolore dell’anima”), dall’ansia alle gravi psicosi, tutte classificate e (quasi) tutte curabili in farmacia.

“Dottore, perché proprio a me?”.

La risposta al perché la mamma di tre bambini ha un cancro in fase terminale, al perché un bambino di due anni ha una malattia rara e senza diagnosi, al perché un ottantenne debba soffrire un dolore cronico, acuto, lancinante e costante, può rimandare a una spiegazione eziopatogenetica della malattia o della manifestazione dolorosa. Il medico può parlare di cellule, infezioni, emorragie, virus ecc., ma questa risposta, per il paziente sofferente, può rivelarsi parziale. Con quelle domande il paziente non vuole solamente conoscere la causa e la geografia del suo dolore organico e della sua malattia, ma il senso e il significato da attribuire all’esperienza della malattia e del dolore che sta vivendo il quel momento. Ma la BTM non pensa: la BTM fa e funziona. Non rientra nei suoi programmi fornire risposte a questioni che esulano dalla dimensione biologico-organica del dolore; e non perché non sia abbastanza perfezionata ma perché, proprio per poter efficacemente funzionare, deve escludere dai suoi apparati tutto ciò che non è riconducibile al dominio del tecnico e al corpo-organismo (Korper). Al medico non si può chiedere qual è il senso “extra fisico-organico” del dolore, perché si deve concentrare sulla dimensione biologica del danno. E per molti versi è un bene che sia così. Claude Bernard, verso la metà dell’Ottocento, agli arbori della Medicina Sperimentale, scomodava addirittura Francesco Bacone per annunciare che il “nuovo” medico-scienziato sperimentale deve impedire che le passioni e le emozioni possano offuscare il suo sguardo clinico (le regard medicalle di cui parla Michel Foucault). Tutto ciò che non riguarda il corpo e la dimensione biologico-organica del dolore deve essere escluso dalla BTM, nella misura in cui non può essere ricondotto, appunto, a un agire, o meglio, a un “fare” tecnico, a un’applicazione di procedure collaudate negli apparati e nei laboratori tecnici, oppure alle cosiddette evidenze scientifiche o prove di efficacia (Evidence Based Medicine). Proprio in virtù di questo impegno di salvezza dell’umanità dal dolore che attanaglia il corpo, i tecnici non possono occuparsi dei problemi “altri” rispetto all’ambito tecnico e organico, cioè del senso del dolore e di altre strane faccende di carattere vagamente “esistenziale”. Se ne occupino pure i filosofi, i preti e i “non tecnici”, ma senza interferire con chi fa un onesto lavoro tecnico. La BTM dà soluzioni a problemi; non risposte ai misteri.

Ma il bisogno di risposte emerge con prepotenza tra gli ingranaggi della BTM. E così, accanto ai “tecnici del corpo”, fanno la loro comparsa i “tecnici dell’anima”, o forse i “tecnici della mente” o “del cervello”, per utilizzare termini meno desueti e più in linea con l’evoluzione delle scienze della psiche contemporanee. Essi dispongono di tecniche e strumenti sempre più avanzati per diagnosticare e curare coloro che hanno problemi con il senso della vita e con il dolore vissuto. La nosografia psichiatrica dispone di tantissimi nomi per qualificare la variegata esperienza della ricerca del senso e del significato delle in-sensate esperienze vissute nella loro deriva psicopatologica che, nella misura in cui si associano all’ansia, all’angoscia oppure a vari sintomi nervotici o borderline (un termine oggi di moda), la ricerca del senso del dolore diventa esso stesso un sintomo di malattia o comunque di un disturbo della personalità. La ricerca del senso del dolore è un’imprescindibile esigenza umana che non può essere appagata con soluzioni tecniche. Certo che il Prozac può lenire i sintomi depressivi, lo Xanax può aiutare a dormire, ma così si curano i sintomi non le origini del mal-essere trasformato in patologia.    

La BTM, insomma, genera problemi che non possono essere risolti con gli strumenti della tecnica. La scienza clona la pecora “Dolly” e promette che un giorno clonerà un essere umano, ad altri occuparsi se sia giusto o no. E cercare di fermare il progresso tecnico con l’etica è come credere di fermare un jumbo jet con i freni di una bicicletta.

Ma proprio all’apice della performance tecnica, e in particolare in merito alla gestione del dolore e nella lotta contro le malattie della BTM, sorge l’impressione che alla tecnica qualcosa possa sfuggire, e che ciò possa rappresentare l’essenziale. Il dolore attanaglia certamente il corpo ma l’esperienza del dolore non riguarda solamente il corpo-organismo (Korper). Chi prova dolore desidera certamente sapere dov’è localizzato il suo male, quali sono le cause e quali i rimedi contro il male; ma accanto a tale desiderio sente la necessità di inquadrare il male in un contesto di con-senso, ha bisogno di comunicarela sua esperienza del dolore, ha bisogno di dialogo, ascolto, empatia, relazione, che non possono essere elargiti dalla BTM. 

Anzi, sì. I “tecnici dell’anima” hanno elaborato esperimenti e scale di misura dell’empatia, offrono un “ascolto clinico” che elargisce diagnosi-prognosi-terapie, nonché tecniche di gestione del Transfert e del Contro-Transfert, cioè della relazione terapeuta-paziente, in contesto analitico. Sono tecniche efficacissime e molto utili per fornire un certo tipo di risposte a situazioni patologiche o patologizzanti. Ma se la ricerca di senso del dolore non è una malattia e non prevede diagnosi e psico-soluzioni, si origina la necessità di elaborare nuove risposte alla domanda di senso del soggetto dolorante, al di là di ciò che la tecnica, di per sé, possa offrire.

Medical Humanities e Pratiche Filosofiche.

Nelle incrinature della BTM emerge la necessità di affrontare, da altri punti di vista, le questioni non tecniche che essa suscita, e che cerca di risolvere, con risposte, appunto, bio-psico-tecniche. I movimenti internazionali delle Medical Humanities e delle Pratiche Filosofiche in contesti clinici, nascono proprio dal desiderio di allargare la dimensione della cura e della comprensione dei soggetti della cura. Di colui che offre le cure e di colui che le cure le riceve. L’obiettivo è creare una profonda sinergia tra la BTM, le scienze umane e le arti, imprescindibile per offrire forme di cura delle malattie e del dolore scientificamente efficaci ma insieme rispettose dei bisogni globali della persona. La risposta biologico-organica, estremamente preziosa per curare la componente del danno del dolore e della malattia, è necessariamente parziale e unilaterale rispetto alla componente del senso e del significato del danno presente in ogni esperienza di dolore e di malattia. Si tratterebbe, insomma, di innestare discipline “non tecniche” all’interno degli apparati della tecnica, che sappiano aiutare le persone a trovare una risposta ai quesiti che nascono tra gli ingranaggi della tecnica ma non sono tecnicamente risolvibili. L’immissione di Humanities all’interno della BTM è capitanata dalla filosofia, la regina della Humanities e insieme la disciplina che, nelle sue varie incarnazioni, per elezione si occupa delle questioni del senso e del significato del dolore e, in generale, dell’umana esistenza. La filosofia, incarnata nella religione, nella psicologia, nelle scienze umane e nelle arti, dispone di una lunga tradizione non solo di “saperi” ma anche di “pratiche”, assai preziose per appagare il bisogno di senso e significato evocate dalle tragiche esperienze del dolore.

Le Pratiche Filosofiche, in contesti clinici, s’innestano all’interno del movimento delle Medical Humanities con l’obiettivo di offrire ai soggetti delle cure (di chi offre e di chi riceve cure) una serie di strumenti utili per affrontare le questioni etiche, esistenziali, decisionali che nascono nel seno della BTM ma non possono essere affrontati con gli strumenti di quel paradigma. Non si tratta di fornire soluzioni ma di cercare insieme risposte; le Pratiche filosofiche non sono infatti profetiche ma maieutiche, non offrono pillole di saggezza e non trasmettono Verità, ma aiutano i soggetti a partorire le proprie verità e si prendono cura dei pensieri generati, delle emozioni e dei dolori vissuti, insieme alla BTM, ai tecnici del corpo e ai tecnici dell’anima, che possono così occuparsi solo ed esclusivamente del loro onesto lavoro tecnico.

Molte facoltà di medicina delle Università italiane hanno inserito corsi e seminari di Humanities nei loro programmi e diversi ospedali ospitano progetti di Humanities e Pratiche Filosofiche in corsia: una nuova tendenza dei tempi attuali che fa tornare in auge l’antichissima missione della medicina nella sua alleanza  con la filosofia: la cura della persona globale e non solo di un pezzo di corpo malato. 

Per scoprire i progetti di Pratiche Filosofiche e Medical Humanities in ambito clinico: www.pragmasociety.org .

Bibliografia

Foucault M., la nascita della clinica, Einaudi, Milano 1991
Gehlen A., L’uomo nell’era della tecnica, Armando Editore, Roma 1987
Jaspers K., Il medico nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2004
Leriche R., La Philosophie de la Chirurgie, Flammarion, Paris 1951
Natoli S., L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 2009
Nave L., Bisollo M., Filosofia del benessere. La cura dei pensieri e delle emozioni, Mimesis, Udine 2010
Autore
Luca Nave. Dottore in Filosofia. Presidente di Pragma. Società Professionisti Pratiche Filosofiche. Docente di Bioetica Clinica al Master in Malattie Pediatriche Complesse dell’Università degli Studi di Torino. Collabora con Centri e Strutture della Rete Interregionale per le Malattie Rare della Regione Piemonte e Valle D’Aosta e coordina il Centro di Ascolto “IncontRare” della Federazione Malattie Rare Infantili Onlus. www.spaziofilosofante.com 

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