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Eutanasia e dintorni: facciamo chiarezza. Di Luca Nave

Il referendum: i “pro-life” e i “pro-choice”.

La Corte costituzionale dichiara inammissibile il referendum sull’eutanasia, denominato “Abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale (omicidio del consenziente)”. In attesa della sentenza, che sarà depositata nei prossimi giorni, l’Ufficio comunicazione e stampa fa sapere che la Corte l’ha ritenuto inammissibile perché, “a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.

La notizia ha immediatamente sprigionato il dibattito tra i “Pro-Life” e i “Pro-Choice”, troppo impegnati a difendere la propria posizione sul fine vita ma poco attenti a chiarire i termini della questione ai non addetti ai lavori. In attesa di leggere il testo della sentenza, in questo articolo, piuttosto che entrare nel merito del dibattito sul referendum, intendo proporre una chiarificazione e una delimitazione concettuale e linguistica dei termini su cui si discute, tra eutanasia, suicidio assistito, sospensione dei trattamenti e sedazione palliativa.

 

Che cos’è l’eutanasia.

L’eutanasia rimanda a un insieme di “atti compiuti intenzionalmente da un medico allo scopo di porre fine alla vita di un individuo che ne abbia fatto esplicita, inequivoca e ripetuta richiesta, con lo scopo di liberarlo da una sofferenza psicofisica derivante da una malattia inguaribile, e dall’individuo stesso avvertita come insopportabile” (Borsellino, 2018, p. 407).

Un atto eutanasico rimanda dunque all’azione del medico che intende raggiungere lo specifico e diretto fine di provocare la morte di un soggetto affetto da una malattia inguaribile, oppure che versa in una situazione irrimediabilmente invalidante, assecondandone la volontà, per liberarlo dalla sofferenza.

Alla luce di questa definizione, la qualifica di “eutanasia” è inappropriata e fuorviante se ci si riferisce genericamente agli atti volti a dare deliberatamente a un individuo una morte non dolorosa:

  • con fini eugenetici (eliminazione degli individui malformati o con turbe psichiche);
  • con fini economici (eliminazione degli individui inguaribili per ridurre i costi dell’assistenza sanitaria o per mancanza di risorse tali da soddisfare tutte le richieste);
  • con fini solidaristici (eliminazione di un individuo per salvarne uno o più altri);
  • con fini sociali (eliminazione di individui per difendere la società nel suo complesso).

In tutti questi atti manca, infatti, una componente fondamentale di un “atto eutanasico”, e cioè l’esplicita, inequivoca e ripetuta richiesta del paziente affetto da una malattia inguaribile e avvertita come insopportabile.

 

Eutanasia e suicidio assistito.

La pratica più affine alla buona morte procurata tramite un “atto eutanasico” è il suicidio assistito. Gli elementi rappresentati dalla volontà del malato di essere aiutato a morire e dall’intenzione del medico di operare in vista del raggiungimento dell’obiettivo voluto dal malato a esclusivo beneficio del malato stesso, consente di affermare la contiguità tra l’eutanasia e il suicidio assistito. È vero che il suicidio assistito ha luogo quando l’ultimo atto idoneo a provocare la morte è posto in essere dal soggetto sofferente stesso, ma tale atto presuppone pur sempre una collaborazione determinante del medico il quale, per esempio, procura pillole letali o predispone una macchina per le auto iniezioni. Secondo alcuni, piuttosto che assimilare il suicidio assistito all’eutanasia si potrebbe considerare l’eutanasia come un’ipotesi di assistenza al suicidio assistito (Santosuosso, 1999, p 140). Per l’opinione pubblica l’idea di uccidere deliberatamente un uomo ha una valenza emotiva diversa dall’idea di assistere un malato ad abbreviare la propria vita. Da un punto di vista  giuridico la differenza tra l’omicidio e l’assistenza al suicidio è rilevante: si tratta di due reati penali diversi.

 

Eutanasia e sospensione del sostegno vitale del paziente in Stato vegetativo permanente (SVP).

La qualificazione di “atto eutanasico” attribuita alla sospensione del sostegno vitale del paziente in SVP è impropria, in particolare perché:

  • nel caso del malato in SVP manca il fondamentale e inaggirabile requisito della volontarietà, non essendo possibile per il soggetto formulare una qualunque richiesta;
  • il medico non è chiamato a somministrare un farmaco letale ma a interrompere, e quindi, a omettere le terapie o i trattamenti di sostegno vitale;
  • il medico non si pone il problema di operare con il fine di liberare il paziente da una sofferenza insostenibile, dal momento che i pazienti in stato vegetativo sono incapaci di sensazioni e sofferenze.

 

Eutanasia e sedazione palliativa (SP).

Con la diffusione delle Cure Palliative, l’utilizzo di farmaci sedativi per il trattamento dei sintomi delle malattie in fase terminale è progressivamente aumentato. Il dibattito etico è incentrato su opinioni spesso contrastanti a riguardo di questioni come la qualità della vita e del morire e le affinità o le differenze fra sedazione palliativa ed eutanasia. Nonostante le società scientifiche abbiano prodotto numerosi lavori che argomentano e ben distinguono i diversi atti, la controversia di fondo resta, e alcuni continuano a sostenere che la SP sia una forma di eutanasia (“slow euthanasia”) attuata in modo più o meno consapevole dai medici nei confronti di pazienti.

Per comprendere le diverse questioni in tutta la propria complessità, partiamo dalla definizione di SP, riportata sulle “Raccomandazioni della Società Italiana Cure Palliative sulla sedazione terminale/sedazione palliativa”:

La SP è la riduzione intenzionale della vigilanza con mezzi farmacologici, fino alla completa perdita di coscienza allo scopo di ridurre o abolire la percezione di un sintomo, altrimenti intollerabile per il paziente, nonostante siano stati messi in opera i mezzi più adeguati per il controllo del sintomo, che risulta, quindi, refrattario”.

Nelle righe successive del testo emerge un elemento importante:

“L’intollerabilità del sintomo fa riferimento al punto di vista del paziente: dipende dall’entità della sofferenza e dalla volontà del soggetto di sopportare il sintomo stesso. È un criterio centrale della definizione perché esprime la tensione delle cure palliative alla personalizzazione delle cure” (Aa.Vv, 2008, p. 9).

In linea generale, se la SP e l’eutanasia condividono lo scopo di eliminare il dolore, la SP non è un atto eutanasico perché l’intenzione, il risultato, la richiesta del paziente e la durata sono diversi:

  • intenzione: nell’eutanasia è sopprimere il paziente, nella SP controllare dei sintomi refrattari e alleviare il dolore;
  • risultato: nell’eutanasia è la morte del paziente, nella SP è il grado di controllo dei sintomi;
  • richiesta: nella richiesta di eutanasia i pazienti chiedono una buona morte, mentre richiedono la SP per non provare dolore;
  • durata: l’eutanasia è più facile e più breve, la SP è tecnicamente più difficile e richiede vicinanza, monitoraggio, aggiustamenti terapeutici e soprattutto un costante supporto al malato e ai familiari. La decisione di procedere alla SP viene in genere condivisa dai membri di una equipe sanitaria che opera pubblicamente e viene attuata in modo aperto, con la collaborazione dei familiari.

 

Le decisioni e gli atti di abbreviare il decorso delle fasi finali della vita, come quelle relative alla somministrazione di farmaci antidolorifici oppure quelle di non intraprendere o sospendere trattamenti e terapie che produrrebbero solo un penoso prolungamento della sofferenza del malato, privandolo così del diritto di essere lasciato morire, non sono dunque equiparabili all’eutanasia. Queste decisioni e questi atti, a differenza di quelli eutanasici, trovano una sempre maggiore valutazione positiva sul piano etico e deontologico.

 

Conclusione

Servirebbe molto spazio per approfondire i termini e le questioni qui solamente accennate. Prima di prendere una posizione in merito al dibattito sul fine vita sarebbe importante che certi politici, religiosi, pop-filosofi, animatori di talk show e scrittori di post sui social network facessero chiarezza sui termini e sulle questioni di cui trattano. In questa materia dovrebbe avere ragione chi porta delle buone ragioni, ovvero dei buoni argomenti a sostegno della posizione che si intende sostenere. Ma per argomentare è necessario conoscere mentre chi vuole persuadere preferisce mantenere la confusione nel pubblico che assiste al dibattito, che così viene convinto non in base alle “ragioni della ragione” ma delle “ragioni della forza”, della persuasione, della violenza e dell’inganno (Bobbio,1966).

 

Bibliografia

  • Vv., “Raccomandazioni della Società Italiana Cure Palliative sulla sedazione terminale/sedazione palliativa”, in Rivista Italiana di Cure Palliative, n. 2, 2008
  • Bobbio N., “Introduzione al Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica di Perelman C. e Olbrechts-Tyteca L.”, Torino, Einaudi 1966
  • Borsellino Patrizia, Bioetica tra morali e diritto, Raffaello Cortina, Torino, 2018
  • Macellari G., La vita si sconta morendo. L’arte del vivere e del morire bene, Pragma Society Books, Torino (in corso di pubblicazione)
  • Nave L., Lascia stare Dio e muori. Il lamento di Giobbe ai tempi della Bio-Tecno-Medicina, Pragma Society Books, Torino, 2020
  • Santosuosso A., “Il diritto di non soffrire” in, Quaderni di cure palliative, 4, 1996.

 

 

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