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Disabilitare il pregiudizio. Disabilità, sessualità e altre “trasgressioni”. Di Maddalena Bisollo

Durante la mia giovinezza mi è capitato per periodi più o meno lunghi di svolgere attività di volontariato e di lavorare in contesti di assistenza a persone con disabilità fisica e intellettiva. Uno dei bisogni meno ascoltati e “presi in carico” dalle pure attentissime figure professionali presenti nelle diverse strutture e certamente meno affrontati all’interno delle famiglie dei pazienti era certamente quello della sessualità.

Intendo questo termine in senso ampio, non solo come fenomeno fisico legato alla genitalità dell’individuo e all’eccitazione, ma come eros, desiderio di relazione affettiva e del piacere che deriva dal toccare ed essere toccati, lasciando che il proprio corpo si faccia veicolo di conoscenza di sé e dell’altro.

Grazie alla collaborazione con FMRI Federazione malattie rare infantili, negli ultimi anni ho potuto approfondire la questione relativa a disabilità e sessualità, mettendo a frutto le mie conoscenze nel contesto del counseling sessuologico, le competenze acquisite nelle esperienze professionali passate e certamente anche i miei studi e pratiche filosofici.

La filosofia serve per inquadrare in modo ampio il tema, così da comprendere i motivi per cui esso in passato sia stato spesso lasciato a margine nelle relazioni di cura e per i quali ancora oggi la nuova attenzione di cui pure gode non è tuttavia scevra da difficoltà e libera da stereotipi.

Disabili o disabilitati?

Prenderò le mosse dalle riflessioni della filosofa politica Flavia Monceri, la quale innanzitutto rileva la impreparazione del nostro sistema socioculturale ad affrontare una tematica simile, laddove diffusamente si usa il termine “disabilità” per indicare una categoria di persone in qualche modo “mancanti”, menomate, intralciate per effetto di un problema fisico o mentale rilevato dalla medicina appunto come un “impedimento”.

Va da sé che una persona mancante, un dis-abile non sia considerato in grado di condurre una vita umana normale: lui o lei sono appunto fuori dalla norma perché non-abili, incapaci di fare ciò che una persona cosiddetta normale quotidianamente può fare.

La disabilità, dunque, appare innanzitutto come “il prodotto di un giudizio di valore emesso per separare l’abilità dalla non-abilità, e dunque per discriminare tra chi è ‘abile’ e chi non lo è, come segnala il prefisso ‘dis-‘ indicante mancanza, diminuzione, sottrazione” (Monceri, 2017, p.5). In particolare, sono la prospettiva e il linguaggio della medicina a indicare i corpi e le menti atipiche o non-conformi non come semplici varianti dell’umano ma come corpi e menti devianti, patologici, difettosi. Proprio sulla base del modello medico siamo abituati a pensare alla disabilità come a “qualcosa”, come a una realtà oggettiva e inoltre come a una realtà di segno negativo, ossia difettosa e indesiderabile che dovrà essere sottoposta al sapere esperto della scienza medica nella speranza che sia possibile una qualche forma di riabilitazione per facilitare una vita il più possibile “normale”.

Il modello sociale dominante tende quindi a disabilitare alcuni individui, definendo l’intrinseco svantaggio della loro condizione in termini non solo di deficit dell’integrità corporea e/o mentale ma contemporaneamente come posizione sociale priva di valore. Il discorso medico, fondato sulla categoria del patologico come opposto al normale, conferisce a una caratteristica dell’individuo – che di per sé non ha segno né positivo né negativo – la realtà di impedimento o o deficit. Così, la disabilità è un’etichetta che colpisce alcuni individui (disabilitandoli) e assume una certa connotazione etica e politica per il gruppo sociale.

Come rileva Shildrick, “essere percepiti come diversamente incarnati […] significa occupare un posto definito come eccezionale, piuttosto che essere semplicemente parte di una molteplicità di possibilità” (Ivi, p.40). D’altra parte, se la disabilità è un minus che cosa significa essere abili o normali? Chi lo stabilisce?

È chiaro che in gioco sia una forma di potere sociale, che delimita e controlla il territorio della disabilità e anche quando propone cure, solidarietà, attenzione nei confronti delle persone disabilitate lo fa specialmente lasciando giocare loro un ruolo passivo di oggetti-di-cura piuttosto che trattarle come protagoniste attive sulla scena delle relazioni interumane.

Le classificazioni e categorizzazioni degli individui disabilitati lasciano aperta la domanda fondamentale su chi sia di fatto l’essere umano: che cosa significa essere uomini o donne, quali caratteri è necessario avere? Abilità e normalità sono concetti che tendiamo tutti a dare per scontati, senza in realtà possederne alcuna definizione chiara ed esaustiva. Il discorso che stabilisce che alcune persone siano pienamente umane mentre altre lo siano in maniera deficitaria è discriminatorio.

L’intralcio viene per lo più definito come un dato di realtà, un fatto biologico ma esso non è altro che la trasformazione di una variazione corporea o mentale in qualcosa di negativo ovvero in una menomazione o in un deficit. Attraverso questo giudizio di valore si vanno determinando, secondo Monceri, quattro circostanze fondamentali:

  • Si considerano le persone portatrici di un determinato “deficit” come escluse dalla piena umanità
  • Si divide l’umanità in persone pienamente umane e esseri umani deficitari, in altri termini in abili e dis-abili
  • Si convalida l’esclusione della persona disabilitata dalla piena umanità attraverso un’opera di marginalizzazione sociale e politica
  • Gli individui abili e pienamente umani assumono la funzione di rappresentare gli individui intralciati e disabilitati, arrogandosi il diritto di parlare e agire per loro conto
  • Si cerca una validazione etica a tutto questo attraverso discorsi e argomenti presentati come “orientati al bene” e alla “verità”.

Nonostante le numerose conquiste relative ai diritti delle persone disabili, questi meccanismi secondo Monceri sono oggi assolutamente presenti nelle nostre società occidentali e il motivo risiede proprio nell’incapacità di mettere radicalmente in discussione l’esistenza stessa della disabilità come realtà fattuale osservandola piuttosto come “disabilitazione”.

Uno degli esempi più lampanti della difficoltà a riconoscere alle persone disabilitate piena umanità è rappresentato proprio dalla loro esclusione dalla sessualità e da tutti gli aspetti connessi.

Esclusi dal sesso

“L’esclusione dalla sessualità è contemporanea al giudizio in base al quale un corpo viene definito intralciato e dunque si potrebbe aggiungere che si tratta di una delle primissime forme di disabilitazione che conseguono da quel giudizio” (Ivi, p.118).

Quando un corpo appena venuto al mondo viene definito dis-abile sulla base degli intralci che presenta, allora perde anche la capacità di essere abile in quel contesto fondamentale che è appunto la sessualità. Sebbene quel corpo sia sessuato e definibile come maschio o femmina, tuttavia nella stragrande maggioranza dei casi non sarà ritenuto in grado di esercitare la propria sessualità, con gradi diversi a seconda della gravità dell’intralcio.

La giustificazione più diffusa per questa esclusione dalla sessualità è quella per cui essa rappresenterebbe “l’ultimo dei problemi” di un corpo menomato, impegnato a risolvere questioni ben più urgenti. Così si esercita un potere massiccio su quel corpo che viene controllato anche sotto il profilo della sua possibile riproduzione. Escludere dal sesso, infatti, significa escludere al tempo stesso dalla possibilità di generare altri corpi altrettanto intralciati che si pensa creerebbero un problema per il gruppo sociale.

“L’esclusione dalla sessualità non implica soltanto il tentativo di evitare che i corpi intralciati compiano ‘atti sessuali’, ma soprattutto che essi possano assumere quel ruolo ‘genitoriale’ che spetta invece solamente a coloro che, in quanto ‘pienamente umani’, sono destinati a ‘costruire’, generandoli e allevandoli, nuovi esseri ‘pienamente umani’ che li sostituiscano” (Ivi, p.119).

Così, anche laddove la sessualità tra corpi intralciati venga permessa ciò avverrà sempre sotto il controllo degli individui abili e perciò “pienamente umani”, che si incaricano di vigilare sulla sua corretta attualizzazione.

Naturalmente, poi, viene generalmente scoraggiata la sessualità tra corpi abili e corpi dis-abili, presentando questi ultimi come poco attraenti e definendo un’attività sessuale di questo tipo come in qualche maniera “deviata” (anche quando non finalizzata alla riproduzione). In generale, si cerca di scongiurare la fascinazione che potrebbe esercitare un corpo anarchico come quello dis-abile, cavalcando paure sociali come quella del “contagio”, della propagazione di qualcosa considerato come mostruoso e temibile e che potrebbe condurre dall’ordine al caos.

L’effetto mani di forbice

Il tema di sessualità e disabilità è stato affrontato spesso dal cinema, con risultati più o meno buoni, talvolta offrendo purtroppo occasione di riconferma di stereotipi e pregiudizi sociali, talaltra invece costituendone finalmente un punto di rottura. È il caso del film di Tim Burton Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, 1990), in cui la difformità fisica del protagonista non pare costituire un ostacolo ai desideri erotici e all’esperienza della sessualità tra un corpo “difforme” e corpi “normali”, e anzi sembra costituirne proprio il fattore scatenante.

Il film di Burton rappresenta una sorta di fiaba gotica, narrata da una nonna alla nipotina che le chiede da dove venga la neve. Perciò, fin dal principio, la narrazione apre a un mondo e a un personaggio del tutto altri rispetto alla normalità del quotidiano. D’altra parte, questa realtà immaginaria ritrova il suo contatto con la realtà quotidiana quando, alla fine del film, si scopre che la nonna è Kim (Winona Ryder), ovvero una delle protagoniste della storia e testimoni del passaggio di Edward (Johnny Depp) nel mondo dei “normali”.

Il film può a buon titolo inserirsi tra quelle produzioni cinematografiche che rappresentano il “mostro” creato da un inventore visionario (qui interpretato da Vincent Price) e l’inevitabile scontro con i “normali” una volta che egli esca dal mondo artificiale nel quale avviene la sua nascita. Ciononostante, come rileva sempre Monceri, esso “piò essere interpretato anche a partire dal ruolo che in esso riveste il riferimento alla sessualità” (2012, p.39).

In una surreale cittadina statunitense, costituita da casette color confetto in puro stile anni Cinquanta, questa aura di perfezione nasconde in realtà pulsioni e tensioni inconfessabili dietro al perbenismo di facciata. Inoltre, per l’intera giornata la cittadina appare popolata da sole donne, perché gli uomini la lasciano per recarsi al lavoro tutti nello stesso orario.

La vita di queste donne di provincia si dipana secondo gli stereotipi più diffusi, tra lunghe telefonate alle amiche per raccontare poco o nulla, idraulici chiamati per prestazioni più personali che professionali, trattamenti estetici per accogliere meglio i mariti che rincasano la sera, ecc. Una monotonia che viene spezzata proprio dall’arrivo di Edward, un ragazzo pallido e “diverso”, che non solo viene percepito come spiazzante ma come un vero e proprio diversivo sessuale tutto da scoprire.

Sono le forbici che Edward ha al posto delle mani – ovvero proprio il suo elemento di mostruosità – ciò che scatena i desideri e l’attrazione di tutte le donne in città, suscitando interrogativi e aspettative sulle sue possibilità dal punto di vista sessuale, senza per altro un vero interesse per la sua persona complessiva.

In un interessante rovesciamento dei ruoli di genere, il corpo maschile di Edward diventa oggetto della libido femminile, non da ultimo solleticata anche dalla consapevolezza non-conscia della sua verginità.

La diversità di Edward viene inizialmente accettata da tutti proprio in virtù di questa fascinazione e dell’aspettativa sessuale di queste donne. Edward riesce a vivere senza aiuti ed anzi ha una capacità che altri non hanno legata alla sua deformità: egli sa abilmente e magnificamente tagliare e così può integrarsi nel mondo dei normali, potando le siepi del vicinato donando loro forme artistiche, tosando i cani delle signore e infine arrivando a tagliare i capelli a loro stesse.

Il taglio di capelli (vedi foto in evidenza) spesso si trasforma nel surrogato di un rapporto sessuale, in particolare con Joyce, la casalinga più in cerca di distrazioni. Joyce cercherà di ottenere in seguito anche un rapporto sessuale vero e proprio, per il quale però Edward non è pronto e che rifiuta. Sarà questo rifiuto a dare inizio alla parabola discendente nel rapporto tra Edward e i normali, allorquando Joyce per vendetta lo accuserà di violenza.

Il calo del desiderio e la sua trasformazione in odio da parte delle donne è il vero motivo per il quale ad Edward viene a mancare l’appoggio da parte dei normali” (Ivi, p.43). La fascinazione per il diverso funziona fino a che resta sul terreno della fantasia e termina nel momento in cui deve confrontarsi con una concreta realizzazione.

Infine, Edward farà ritorno al suo cupo castello per trascorrervi una vita immortale e solitaria. Kim, la ragazza di cui si innamora ed è ricambiato (un amore anch’esso slegato dalla sessualità), deciderà di non contravvenire alle regole del gruppo per restare insieme a lui. Così, la tentazione di una sessualità “mostruosa” viene relegata definitivamente al regno della mera fantasia. La sua concretizzazione avrebbe infatti esposto Kim insieme a Edward alla marginalizzazione sociale e al (pre)giudizio sulla propria vita sentimentale e sessuale atipica.

Nella vita vera

Nel 2007 la Convenzione internazionale dei diritti delle persone disabili ha sostenuto il diritto per le persone disabili alla procreazione e il diritto alla loro maternità o paternità. Per l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), “la salute sessuale è l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali dell’essere sessuato, allo scopo di pervenire a un arricchimento della personalità umana, della comunicazione e dell’amore”.

Ogni persona, con o senza disabilità, secondo questi principi dovrebbe essere messa nelle condizioni di vivere la propria sessualità senza vivere sentimenti di vergogna o colpa. La sessualità non va intesa come una risposta meccanicistica o pulsionale, ma all’interno di una complessa trama di relazioni in cui è implicita la necessità di conoscere sé stessi, i propri bisogni, per poterli comunicare e vivere in relazione.

Solitamente sia i familiari che gli operatori dei servizi convengono sul fatto che ogni programma educativo si fondi sull’arricchimento della personalità umana e della comunicazione. Tuttavia, si riscontra spesso una grande difficoltà a leggere nella disabilità la sessualità come integrazione di aspetti somatici, affettivi, intellettivi e sociali.

Le persone disabili o meglio disabilitate cionondimeno hanno una propria identità sessuale: “Non sono solo individui, ma sono maschi, femmine, uomini, donne, e in quanto tali il loro corpo è anche espressione della loro sessualità, di una sessualità spesso celata, vissuta con vergogna o senso di colpa, ma vissuta nel proprio intimo in ogni istante vitale” (Rovatti, 2016, p.17).

È il contesto sociale a portare a considerare la sessualità di una persona disabile come a un’opzione preferibilmente evitabile, talvolta come concessione o perfino come vizio.

In ogni caso, la dimensione sessuale non può essere soppressa semplicemente non considerandola, con atteggiamenti di negazione o di evitamento, concependo la persona disabile come un essere asessuato o angelicato o viceversa come un individuo dalla sessualità “mostruosa” o deviata che vada quindi per quanto possibile rimossa.

L’abitudine degli “abili” a decidere per i “disabili” senza porsi in ascolto dell’esperienza concretamente vissuta dai singoli e dei loro bisogni e senza esercitare un’immaginazione empatica, espone a modalità di prendersi cura inadeguate. Probabilmente per questo motivo spesso chi si occupa del tema di disabilità e sessualità spesso ricorre proprio a esercizi immaginativi volti a promuovere la capacità di “mettersi nei panni di-“, particolarmente difficile quando è rivolta alla disabilità che è quanto si vorrebbe tenere il più possibile lontano da sé, forse per quella irrazionale paura di “contagio” di cui parlava Monceri.

Lo psicologo Rovatti sostiene di aver fatto comprendere ai genitori l’importanza di affrontare il tema della sessualità in relazione ai propri figli con disabilità intellettiva utilizzando quello che definisce un “paradosso”, “chiedendo a ciascuno di loro che cosa avrebbe preferito per la propria vita se avesse vissuto nei corpi dei propri figli: un programma educativo che avrebbe insegnato loro ad allacciarsi le scarpe o a rifarsi correttamente il proprio letto, oppure un programma educativo che avrebbe insegnato loro a utilizzare il proprio corpo per scambiarsi messaggi di affetto, amore, desideri? La totalità dei partecipanti optò per il secondo programma, constatando, tuttavia, come nei percorsi educativi dei propri figli mancasse totalmente questa seconda area” (Ivi, p.43).

Anche Maximiliano Ulivieri, attivista per l’istituzione legale di assistenti sessuali ai disabili in Italia, apre il suo libro proponendo al lettore un esercizio di immaginazione attiva:

“Provate a tornare indietro nel tempo, ai vostri 13, 14 o 15 anni… Ognuno e ognuna di voi avrà iniziato la scoperta del proprio corpo a età diverse, ma di sicuro tutti abbiamo sentito a un certo punto un “bisogno” …un naturale bisogno. Pensate a quel momento in cui il vostro corpo a iniziato a chiamarvi”, non solo per farvi provare fame o sete o altri bisogni fisiologici, ma per qualcosa di altrettanto irresistibile: il richiamo sessuale. […] Immaginate adesso che le vostre mani siano pesanti…immaginate di volerle muovere ma che loro non obbediscano ai vostri comandi, non potete toccarvi né masturbarvi…Non potete farlo in quel momento e neanche il giorno dopo o nei giorni seguenti. […] Pensate, immaginate che non solo non abbiate mai potuto toccarvi, accarezzarvi, masturbarvi da soli ma che nessuno lo abbia mai fatto per voi. Che nessuno vi abbia mai accarezzato e/o masturbato […] Immaginate di non aver mai fatto sesso con un’altra persona. Immaginate che non ci sia mai stato il vostro primo rapporto sessuale e neppure i successivi. Cancellate dalla vostra vita tutto questo. Come vi sentite?” (2021, p.8).

Non affronterò ora il tema dell’assistenza sessuale, che merita certamente uno spazio più ampio, ma al di là della proposta specifica di Ulivieri è significativo che egli utilizzi proprio l’immaginazione empatica per avvicinare il lettore alla sua storia e alla sua esperienza, cercando innanzitutto di contrastare la disabitudine a concepire il deficit come una possibilità dell’umano, qualcosa che può capitare e di cui ciascuno può fare esperienza (e che perciò può realisticamente immaginare).

Occorre tenere presente che ci sono infinite variazioni dell’essere umano ed essere uomini e donne espone inevitabilmente alla fragilità e al bisogno di cure. Tutti noi abbiamo momenti di difficoltà, ci ammaliamo o semplicemente invecchiamo e tutti noi prima o poi non solo offriamo agli altri le nostre cure ma abbiamo bisogno delle loro.

“Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (nulla che sia umano mi è estraneo), diceva Cremete nell’opera di Terenzio. Un’affermazione alla base del principio etico dell’humanitas come cura benevola tra gli uomini che si riconoscono l’uno negli altri.

Conclusione: dall’assistenza all’autonomia

Quando le persone disabili manifestano comportamenti sessualizzati spesso ricevono reazioni contrastanti sia in famiglia sia in società e nei contesti educativi che eventualmente frequentino. Talvolta si tratta di risposte imbarazzate e repressive volte a interrompere il comportamento in atto, talaltra e in modo più adeguato alcuni familiari e operatori cercano di accogliere il bisogno, magari spiegando che tali comportamenti sono consentiti in ambienti intimi e sempre se la persona cui sono indirizzati li gradisce.

Vi sono spesso delle difficoltà a mettersi in posizione di ascolto e di mediazione quando è in gioco la sessualità, specialmente perché in quest’ambito ognuno parte dal proprio punto di vista soggettivo, carico di valori, vissuti e rappresentazioni individuali e tende a sovrapporre questi significati a quelli dell’altra persona. “E’ allora alto il rischio di porsi come sostituti, uniformando i propri significati e i temi valoriali dell’altra persona” (Ivi, p.63).

Se i progetti educativi rivolti alle persone con disabilità sono improntati a un modello prevalentemente assistenziale giocato secondo il registro attaccamento e accudimento, va da sé che non si possa adeguatamente affrontare il tema della sessualità, il quale piuttosto prevede un’attenzione all’autodeterminazione e all’autonomia. Un’autonomia che non significa dotare la persona di un mansionario strumentale di competenze, ma sostenerla nell’acquisizione di basi per sviluppare le relazioni, attraverso spazi di autodeterminazione in cui sperimenti maggiore benessere e gratificazione.

Spesso i genitori di ragazzi e ragazze disabilitati desiderano maggiore autonomia per i propri figli e figlie ma al tempo stesso temono una sua concreta realizzazione, che porta con sé ansie e preoccupazioni. Eppure è in questa direzione che occorre andare se si vuole offrire a chi ha una disabilità gli strumenti necessari per poter cercare, dare e ricevere amore, affetto e intima vicinanza.

Qualcuno propone, specialmente per i casi di disabilità più grave, l’intervento dell’assistente sessuale, ma ciò che soprattutto appare di fondamentale importanza è produrre un cambiamento nel modo di concepire tanto gli interventi educativi quanto le dinamiche relazionali con la persona disabilitata. Si tratta di superare alcuni tabù, chiusure aprioristiche e sensazioni di impotenza spesso evocati dal difficile tema della sessualità, incarnando la parola autonomia nella pienezza e nella globalità della persona, considerandone tutte le molteplici sfaccettature. Occorre innanzitutto, quindi, disabilitare il pregiudizio, in direzione di buone pratiche capaci di abilitare alla ricchezza delle relazioni interumane, smettendo di concepire i corpi intralciati come inabili all’eros e incominciando piuttosto a trattarli come pienamente umani e in quanto tali pienamente partecipi di desideri, turbamenti, attrazioni, eccitazioni e sentimenti che pertengono alla sfera della sessualità di noi tutti e tutte.

Bibliografia

Lolli F., Papegna S., Sacconi F., Disabilità intellettiva e sessualità, FrancoAngeli, Milano, 2010.

Monceri F., Etica e disabilità, Morcelliana, Brescia, 2017.

– Ribelli o condannati? “Disabilità” e sessualità nel cinema, Edizioni ETS, Pisa, 2012.

Rovatti F., Sessualità e disabilità intellettiva. Guida per caregiver, educatori e genitori, Erickson, Trento, 2016.

Ulivieri M., LoveAbility. L’assistenza sessuale per le persone con disabilità, Erickson, Trento, 2014.

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