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COVID19. LE NOSTRE EMOZIONI E IL LORO USO POLITICO. Di Maddalena Bisollo

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COVID19. LE NOSTRE EMOZIONI E IL LORO USO POLITICO.

“Questo giorno di tormenti,

Di capricci e di follia,

In contenti e in allegria,

Solo amor può terminar”.


Mozart, Le nozze di Figaro



Come tutte le società, anche le democrazie liberali abbondano di emozioni. Ogni giorno infatti nella vita di una democrazia si riscontrano rabbia, paura, simpatia, invidia, disgusto, colpa, angoscia e diverse forme di amore.


Così, se una democrazia vuole restare forte, non potrà dimenticare le emozioni delle persone, i sentimenti dei suoi cittadini.


Non sono solo le dittature “aggressive” a essere intensamente emotive e ad avere bisogno di coltivare le emozioni del proprio popolo. Infatti, tutte le società hanno bisogno di creare le condizioni per cui la propria cultura politica possa durare nel tempo e anche di poter contare, nei momenti di tensione, sulla solidità dei valori su cui si fondano.


Ogni società ha bisogno di poter provare rabbia per l’ingiustizia, compassione per la perdita, di contenere l’invidia e il disgusto per favorire un senso di sim-patia condiviso.


“Cedere sul terreno delle emozioni, permettere che le forze illiberali vi trovino spazio significa dare loro un grosso vantaggio nel cuore delle persone e rischiare che queste pensino ai valori liberali come qualcosa di noioso e inefficace”. (Nussbaum,2014).


Tutti i principi politici, buoni e meno buoni, necessitano di un supporto emotivo per consolidarsi e conservarsi nel tempo. Così, se una società liberale aspira a garantire giustizia e pari opportunità a tutti, dovrà tenersi alla larga dal creare divisioni e gerarchie, coltivando viceversa sentimenti appropriati di rispetto, amore e simpatia (syn-patheia, capacità di sentire con-, di sentire insieme).


Molti di noi tendono a non provare comprensione per gli altri e per i loro problemi. Così, le emozioni dirette alla nazione e ai suoi obiettivi sono spesso di grande aiuto nell’indurre le persone a una maggiore apertura mentale e a impegnarsi per il bene comune.


Sono di grande aiuto anche nel non chiuderci nel nostro piccolo, ristretto Sé, cercando di proteggerlo denigrando e mettendo in secondo piano gli altri. Una tendenza questa, radicata in ogni società e, infine, presente in ciascuno di noi.


Il disgusto, l’invidia e il desiderio di gettare la vergogna su altri, sono presenti in ogni società e verosimilmente in ogni individuo che ne fa parte. Se non vengono delegittimati possono creare gravi danni e divenire causa di ripugnanza verso un certo gruppo di persone usato per giustificarne la discriminazione.


Oggi viviamo un momento complesso e di grande tensione sociale. Appare quindi fondamentale che la politica attenzioni profondamente il proprio modo di comunicare, scegliendo le parole giuste per veicolare alcune emozioni piuttosto che altre.


La parola, come già ben sapeva Gorgia (483 ca. – 375 ca. a.C.), è un “grande dominatore, che col più piccolo e più invisibile corpo compie le opere più divine” e, dunque, va scelta con cura e ben dosata.

Il punto è che per fare questo bisogna avere una profonda consapevolezza del tipo di società che si vuole realizzare e che ci sia una coesione d’intenti su questo punto.


L’Italia da molto tempo non sembra tenere opportunamente da conto il proprio linguaggio né la sua capacità di veicolare emozioni in linea con lo spirito democratico e la coesione sociale. Questo lo si può affermare tanto guardando a destra quanto a sinistra, a mio modo di vedere. Difficile quindi che un momento di emergenza sia di per se stesso sufficiente a far nascere all’improvviso doti pressoché sconosciute alla nostra politica.


La confusione del mondo politico si riflette dunque in un linguaggio altrettanto ambiguo. E i sentimenti dei cittadini seguono.

Nel tentativo di ispirare un comune senso del dovere, per esempio, sono stati scelti innanzitutto gli hashtag “iorestoacasa” e “restateacasa”. L’obiettivo era probabilmente di creare coesione per affrontare insieme il pericolo di contagio presente “là fuori”, proteggendo se stessi e le persone più fragili.


Il grosso problema di questa scelta è che ha cercato di creare unione sulla base di parole di per sé divisive: per esempio, è netta la separazione tra chi ha una casa e chi non ce l’ha o tra chi può stare a casa e chi deve andare al lavoro o anche solo tra chi sta benissimo tutto il giorno tra le mura domestiche e chi soffoca se non può uscire ogni tanto a fare una breve passeggiata.


Purtroppo, anche ora che le divisioni sono emerse in modo anche violento, la comunicazione non accenna a cambiare. Così, anziché veicolare sentimenti di empatia e di solidarietà, essa suscita sempre più spesso sensi di colpa in chi è costretto a uscire o vorrebbe farlo e disprezzo da parte di chi sta a casa per tutti coloro – indistintamente – che, per un motivo o per l’altro, escono.


La situazione sta degenerando al punto che sui social imperversano parole, post e commenti di estrema aggressività cui fuori, nella vita reale, corrispondono secchi d’acqua lanciati dalle finestre ai passeggiatori sottostanti, insulti gridati dai balconi e sguardi di diffidenza e disgusto reciproci.

Questo evidentemente non è il clima emotivo desiderabile in una democrazia.


Sono poi stati scelti altri hashtag come “andràtuttobene”, con l’obiettivo di creare un sentimento di speranza per il futuro. Una speranza che tuttavia si fonda su una sostanziale immobilità, su una forma di passività e di attesa del futuro che non è sufficiente a fondare una reale fiducia nell’opera delle istituzioni. Fiducia che infatti in molti stanno via via perdendo: come coloro, ad esempio, che rispondono con il nuovo hashtag “nonandràtuttobene”.


Personalmente, ritengo che gli hashtag, nonostante la loro facilità a essere diffusi e ripetuti su larga scala, non siano degli strumenti comunicativi cui la politica dovrebbe affidarsi in tempi così delicati come questi.


Se occorre ristrutturare la fiducia via via allentata nel tempo dei cittadini nei confronti delle istituzioni, se è necessario creare coesione sociale e promuovere l’empatia e l’altruismo, se si crede di dover suscitare speranza, qualche slogan non può bastare e anzi rischia di fare più che altro danni profondi, a detrimento dello stesso tessuto sociale.


Tanto più che ci si trova anche a dover contrastare i sentimenti prodotti dalle notizie date a mezzo stampa e web, promotrici di un generale senso di allarme che si traduce nella diffusione incontrollata di terrore, ansia e paura.


Odio, disprezzo, sfiducia, angoscia: sono questi i sentimenti che vogliamo coltivare nella nostra società presente e lasciare in eredità alla società futura?


Io credo che nessuno di noi lo desideri davvero.


Occorre allora guardare alla grande politica e al linguaggio che ha utilizzato. Scopriremo facilmente che non di hashtag o di slogan ha nutrito le menti e i cuori dei cittadini, bensì di discorsi profondi e pieni di cuore.


“Una delle ragioni per cui Abraham Lincoln, Martin Luther King, il Mahatma Gandhi e Jawaharlal Nehru furono dei grandissimi leader politici per le loro rispettive società liberali risiede nell’aver compreso l’esigenza di arrivare al cuore delle persone e di saper ispirare, deliberatamente, passioni forti a sostegno del lavoro comune da svolgere”.


Dall’India agli Stati Uniti all’Europa, essere un cittadino è qualcosa che si lega strettamente all’idea di coscienza personale, dissenso (sì, lo spazio critico del dissenso è fondamentale) e coraggiosa resistenza. Essere un cittadino è un valore che, come altri valori, ha bisogno di emozioni per potersi consolidare e riprodurre.


Solo un grande linguaggio può sostenere in tempi di crisi questo tipo di valore. Ciò è quantomai urgente se non vogliamo perdere le nostre basi democratiche e liberali che con sé portano principi davvero cruciali di giustizia sociale: uguaglianza, pari dignità, uguali libertà politiche e civili, uguale protezione delle leggi, prevenzione della violenza e della frode, garanzia dell’istruzione e diritto alla salute.


Certo le nostre leggi sono poste a cura e tutela di questi principi. Ma ciò nella storia dell’umanità non è mai stato sufficiente: senza un adeguato supporto emotivo anche le buone leggi faticano a restare tali nel corso del tempo senza subire degenerazioni di sorta.


Il linguaggio confuso, ambiguo, contraddittorio di questi giorni crea altrettanto confuse e contraddittorie emozioni. Ciò è un rischio enorme per il già fragile equilibrio sociale.

Occorre ritrovare una chiarezza di intenti e di parola, riscoprendo i valori fondanti della democrazia e parlando ai cittadini con linguaggio denso di contenuti e di emozioni di cui oggi abbiamo urgente necessità. Questo presuppone conoscere adeguatamente il linguaggio del cuore.


Innanzitutto, occorre pensare a mitigare la paura con l’ottimismo e l’iniziativa. Questo è quanto si sta cercando di fare quando si dice “insieme ce la faremo”, uno dei pochi punti del discorso politico davvero efficaci, su cui insistere e che però rischia di essere del tutto vanificato da altre parole che “rompono” quell’ “insieme” in tante individualità separate e cieche rispetto alle condizioni vissute da altri.


Nel suo famoso discorso d’insediamento, Roosevelt dinanzi alla dura crisi economica, definiva il popolo americano come un grande esercito schierato a difesa “dei nostri problemi comuni” – di cui viene riconosciuta l’enorme portata – e che con coraggio affrontava l’emergenza, concepita comunque come meno grave dei “pericoli che i nostri padri superarono e vinsero, perché essi credevano e non avevano paura” (4 marzo 1933). Un discorso che in un colpo solo punta sull’unione, sul coraggio, sulla speranza e sul senso di appartenenza a una nazione forte e meritevole di fiducia.


Allo stesso modo, Sergio Mattarella, nel suo ultimo discorso – che si distingue luminoso nel grande tafferuglio del linguaggio politico e mediatico –, anch’egli senza per nulla minimizzare la portata della crisi, ha espresso empatia e solidarietà per tutti i cittadini indistintamente e ha calorosamente e quasi paternamente invitato tutti a collaborare alla battaglia comune contro l’emergenza.


Non c’è spazio nelle parole del presidente della repubblica per odi, rancori e divisioni di sorta. Nemmeno per quelle che alimentino sentimenti di sfiducia e di ostilità nei confronti delle altre nazioni e dell’Europa tutta. Perché abbiamo bisogno di questo, di senso di unità.


Non manca il richiamo alle nostre risorse e l’infusione di una necessaria speranza:

“Unità e coesione sociale sono indispensabili in questa condizione “, conclude Mattarella e poi “un’ultima considerazione: mentre provvediamo ad applicare, con tempestività ed efficacia, gli strumenti contro le difficoltà economiche, dobbiamo iniziare a pensare al dopo emergenza: alle iniziative e alle modalità per rilanciare, gradualmente, ma con determinazione la nostra vita sociale e la nostra economia. Nella ricostruzione il nostro popolo ha sempre saputo esprimere il meglio di sé. Le prospettive del futuro sono – ancora una volta – alla nostra portata” (27 marzo 2020).


Abbiamo altre volte superato periodi difficili e drammatici. Vi riusciremo certamente – insieme – anche questa volta: questo il suo messaggio.

La scelta delle parole, in questo caso, ha evitato accuratamente anche la stessa metafora bellica, per scongiurare ogni possibile emozione aggressiva legata a uno scontro armato; saggiamente evitando, al tempo stesso, di farci andare alla ricerca di un nemico in carne e ossa da combattere, essendo, quello di oggi, un nemico del tutto invisibile agli occhi.


Non è solo la diffusione del Covid19 che crea emozioni, ma fondamentalmente il modo in cui viene rappresentata e raccontata l’emergenza e il modo in cui la politica si esprime nell’affrontarla.

L’amore è importante per la giustizia (Nussbaum, 2014), questo non va mai dimenticato.

Se vogliamo una società giusta, le emozioni che mettiamo in circolazione non possono essere improntate all’odio e alle divisioni.


Per questo motivo è davvero importante che i nostri governanti diano più importanza all’atmosfera emotiva in cui ci troviamo ad affrontare questa difficile sfida. Anche perché in un paese come l’Italia, già sofferente dal punto di vista tecnico ed economico, lasciar circolare a briglia sciolta emozioni negative significa condannare la società al collasso.


Sembra che appellarsi all’amore sia poco utile, oggi. Riteniamo molto più opportuno considerare esclusivamente il pensiero economico, la scienza, la dottrina militare, la tecnologia informatica, che vanno alla ricerca di soluzioni “concrete”.


Certamente, se non si saprà dare adeguata risposta ai problemi più pratici e urgenti, legati in particolare al sistema sanitario e al sistema economico nazionale, il futuro non sarà certo roseo.

Ciononostante, non si può pensare di risanare la nazione senza considerare la disaffezione dei cittadini per la politica, senza promuovere la fiducia, senza alimentare la speranza, senza coltivare un senso di reciproca amicizia e simpatia.


Non di sola tecnica vive una democrazia.


Pensiamoci: le nazioni “hanno bisogno di capacità tecnica ma non hanno bisogno di quel tipo di emotività quotidiana, la simpatia, il ridere, il piangere, che invece ci è richiesta in qualità di genitori, di amanti o di amici, o della meraviglia con cui contempliamo la bellezza? Se le nazioni fossero davvero così ci sarebbe da scappare” (Nussbaum, 2014).


Vorrei un paese più prospero, certo. Un paese con un sistema sanitario che funziona. Vorrei un paese che riesce a sostenere i suoi cittadini dal punto di vista economico quando l’emergenza minaccia il loro lavoro e i loro risparmi.

Vorrei però anche un paese in cui circolano idee ed emozioni orientate al bene. In cui non ci si guarda con diffidenza. In cui si collabora e si lotta insieme. Un paese di amici e non di nemici. In cui si canta dai balconi pronti a farcela insieme senza però poi insultare il primo ignaro passante.


A questo punto, vorrei concludere non questa consapevolezza: ognuno di noi ha una parte fondamentale per migliorare la situazione. Laddove non stia arrivando ancora il linguaggio della politica, possiamo tuttavia arrivare noi, ciascuno per suo conto, prendendoci cura delle nostre parole, dei nostri sentimenti e dei nostri gesti nei confronti del prossimo.


Possiamo privilegiare parole gentili e comprensive a quelle di odio e di disprezzo. Possiamo coltivare dentro di noi la speranza anziché farci paralizzare dalla paura. Possiamo utilizzare il timore per la nostra salute e per quella dei nostri cari in modo non egoistico ma inclusivo della sofferenza e delle preoccupazioni di tutti, di qualunque tipo esse siano.

Possiamo collaborare ognuno a suo modo alla conservazione della democrazia e dei sui valori fondamentali prendendoci cura di ciò che coltiviamo nel cuore.


Possiamo scegliere per la nostra società gli stessi sentimenti che riteniamo importanti per le nostre relazioni e che tengono unite la nostra coppia, le nostre famiglie e le nostre amicizie.

Sì, io scelgo l’amore. Senza sentimentalismi di sorta, ma con una solida fermezza che sola può ergersi a difesa dei valori in cui credo.


A qualcuno la mia sembrerà solo retorica. Ma potete crederci: se è vero che le parole si traducono presto in sentimenti e i sentimenti in comportamenti, è vero anche il processo inverso. Quando allora parole ed emozioni prendono corpo e diventano di carne e di sangue, sarà assai meglio avere a che fare con l’amore e la generosità, che con l’odio e la guerra civile.


“Il vero amore è come una finestra

       Illuminata in una notte buia.

Il vero amore è una quiete accesa”.

G. Ungaretti



Autore: Maddalena Bisollo, Direttrice Scuola Pragma Milano www.scuolapragma.com 


Biblio e Sito-grafia


Aristotele, Retorica, Bompiani, 2014.

Battistelli F., “Metafore di guerra e confusione di concetti”, MicroMega, 24 marzo 2020.

Bramani L., Le nozze di figaro. Mozart massone e illuminista, Il Saggiatore, 2020.

Gorgia da Lentini, Encomio di Elena, Liguori, 2007.

Nussbaum M., Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica, Vita e Pensiero, 1998.

Nussbaum M., Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia, Il Mulino, 2014.

www.quirinale/discorsi , Discorso del Presidente della Repubblica, 27 marzo 2020





















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