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Covid19. Che cosa fare del nostro tempo? Il metodo Proust. Di Maddalena Bisollo

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Covid19. Che cosa fare del nostro tempo? Il metodo Proust.

“Eppure non avremmo dovuto aver bisogno del cataclisma per amare oggi la vita” (M.Proust).

La situazione dettata dall’emergenza per la diffusione del virus SARS-CoV-2 determina per gran parte di noi una maggior quantità di tempo libero, da impegni lavorativi, spostamenti, appuntamenti mondani. Ma, si sa, essere liberi da qualcosa – dalle incombenze cui eravamo abituati – , non significa essere anche liberi di investire il proprio tempo in modo proficuo per noi o, potremmo anche dire, salutare.

Da una parte, alle vecchie necessità se ne sostituiscono comunque delle nuove: per esempio, chi ha bambini a casa da scuola, sebbene magari non vada al lavoro o lavori più agevolmente dal proprio domicilio, dovrà comunque conciliare il proprio tempo con la gestione dei piccoli; oppure, chi è costretto a lavorare da casa secondo nuove modalità – penso ai docenti e alla didattica online, ma anche a tanti impiegati d’azienda – dovrà attrezzarsi e investire del tempo nell’acquisizione di nuove competenze.

Tuttavia, non è per questo che il tempo spesso non libera le sue potenzialità. Piuttosto, la questione ha a che fare con il modoin cui viviamo le nostre giornate, in cui facciamo scorrere i minuti e le ore, nella relazione con gli altri o con noi stessi.


Quando si chiede a qualcuno come investa il proprio tempo, le risposte avranno spesso a che fare con le cose che fa per riempirlo: mettiamo cose dentro al tempo, come se questo fosse un grande contenitore; un po’ di ginnastica, un po’ di cucina, le pulizie di primavera, una serie tv, un giornale, mescoliamo il tutto ed ecco la nostra ricetta per un tempo buono.

Così, fioccano sui social condivisioni e consigli, anche piuttosto fantasiosi e divertenti, su come riempire al meglio o, se vogliamo, su come ammazzare il tempo. Ciò ha l’indubbio merito di ricordarci che anche nei momenti difficili è possibile trovare degli escamotage per darsi coraggio, fare un sorriso, produrre qualcosa di utile ed essere creativi.

Ma il tempo, riempito e ammazzato, non è il tempo davvero più salutare per noi.



In questi giorni, ciascuno sembra avere un’idea precisa di che cosa significa “essere in salute”: innanzitutto, vuol dire non essere malati e, in particolare, non contrarre il coronavirus. Essere in salute vuol dire avere un corpo in salute.

In passato, si pensava più all’anima che al corpo, poiché essa rappresentava il nostro nucleo essenziale ed eterno e bisognava fare attenzione, attraverso una vita retta, a non condannarla dopo la nostra dipartita alle pene dell’inferno. Oggi, all’anima ci credono in pochi, così come in pochi rivolgono le proprie attenzioni alla salvezza celeste: la vera salvezza è per noi la salute del corpo e i veri salvatori sono i medici, non Dio e i suoi sacerdoti.

I medici italiani svolgono in questo periodo di emergenza un lavoro encomiabile, spesso mettendo a rischio la propria salute fisica – appunto, il nostro bene più prezioso – per prendersi cura di altri. Giustamente, dunque, tutti noi ascoltiamo scrupolosamente le loro raccomandazioni igieniche e diamo in questo modo una mano all’operazione salvifica, aggiungendo un altro ingrediente fondamentale al nostro tempo buono.

Dovremmo però ricordare in tutto questo che nessuno può davvero delegare ad altri la propria salvezza. Non solo perché se anche il coronavirus sarà debellato, non saremo comunque risparmiati ab aeterno dal dolore e dalla morte, cui tutti, ahimé, siamo per natura destinati. Bensì innanzitutto perché ciascuno di noi è chiamato, in primo luogo, a vivere la vita come un tempo che è il suo. Sì, il suo e di nessun altro.

A questo punto, la ricetta per un tempo buono appare irrimediabilmente incompleta. Nessuno degli ingredienti che ci abbiamo messo dentro, infatti, assicura che saremo in grado di abbandonare il tempo dell’orologio, del lavoro, degli impegni famigliari, per abbracciare il nostro tempo. E neppure la ricetta stilata fino a qui garantisce che per quanto riempiamo il contenitore e ammazziamo il tempo, saremo in grado alla fine di gustarlo.

Chi potrebbe voler cucinare una pietanza con tanto impegno, senza poi essere in grado di sentirne il sapore, di odorarne il profumo, di apprezzarne la composizione e la bellezza?

Un maestro, quanto a “vivere il tempo”, è stato certamente Marcel Proust.

Il padre di Marcel, Adrien Proust, era un medico, divenuto famoso, nella seconda metà dell’Ottocento, per i suoi saggi sul colera, la peste bubbonica e l’igiene pubblica, non meno che per la sua strenua “lotta sul campo”. Un eroe dei suoi tempi.

Mentre il padre, così come il fratello Robert, per tutta la vita si presero cura della salute dei corpi, Marcel si dedicò a un’attività diversa, che allora come oggi, spesso è ritenuta assai meno importante: fece lo scrittore. In particolare, curò sette volumi di un romanzo intitolato À la Recherche du temps perdu (“Alla ricerca del tempo perduto”).

“Ah, Céleste” disse un giorno alla sua cameriera “se fossi sicuro di poter fare con i miei libri quello che mio padre ha fatto per i malati!”.  L’aspirazione di Marcel era quella di fare con un romanzo ciò che Adrien Proust aveva fatto con i malati di colera e peste bubbonica. Una vera sfida nella società dei primi del Novecento, così come, a dire il vero, per la società odierna.

L’intenzione di Proust ci porta a considerare la possibilità che un libro – un romanzo! –  possa avere funzioni terapeutiche. In particolare, che possa aiutarci a “trovare il tempo”, quel tempo che troppo spesso abbiamo perso (oppure ammazzato).

La ricetta di Proust non consiste in una lista di ingredienti da mescolare, ma in una lista di strumenti da utilizzare: insomma, egli non vuole insegnarci a diventare bravi “cuochi del tempo” elencandoci cose da fare, ma esercitandoci nella tecnica di cucina.

Vediamo la ricetta di Proust.

1-    N’allez pas trop vite. Non abbiate fretta. Nessun cuoco che abbia fretta, fa buone cose.

Basta osservare la mole del suo romanzo, più volte criticato per la sua estrema lunghezza, per capire che Proust non avesse alcuna fretta, né desiderasse lettori troppo veloci. La Recherchenon è un romanzo per “divoratori” di libri.

Quando dedicate il tempo a un libro, a un film, a un po’ di ginnastica, andate piano. Mentre cucinate il vostro tempo, assaggiate. Che cosa sentite? Il gusto è buono? Che cosa provoca in voi la lettura di una pagina, la visione di un’immagine, l’articolazione di un movimento?

Facciamo un esempio. State leggendo un giornale.

“Quell’atto abominevole e voluttuoso definito leggere il giornale” sentenzia Proust “grazie al quale tutte le sciagure e i cataclismi dell’universo avvenuti nelle ultime ventiquattr’ore… si associano in modo particolarmente eccitante e tonico all’ingestione raccomandata di qualche sorso di caffelatte”.

Proust leggeva il giornale ogni mattina a colazione. Perché, allora, lo definisce un “atto abominevole”? Semplicemente, perché si tratta di una truffa. Leggere il giornale (cartaceo o online) ci illude di aiutarci a conoscere molte cose attraverso titoli altisonanti e qualche riga di commento, ma non è così.

Nel 1907 Proust lesse un articolo, titolato “Un dramma della pazzia”: un giovane di famiglia borghese, Henri van Blarenberghe, in un accesso di follia aveva ucciso la madre con un coltello da cucina. Lei aveva gridato: “Henri, Henri, che hai fatto di me?”, per poi cadere sul pavimento. Henri si puntò allora la pistola alla tempia, ma non morì subito: i poliziotti lo trovarono ancora vivo, con un occhio che penzolava dall’orbita. Morì poco dopo.

Leggendo, ora, abbiamo riempito il nostro tempo con una notizia. Prendersi del tempo per questa notizia, però, è un’altra cosa. Proust, per esempio, ci scrisse sopra cinque pagine. Paragonò Henri a Edipo, che aveva usato i fermagli del vestito della madre Giocasta per cavarsi entrambi gli occhi. Nelle parole della madre “Che hai fatto di me!”, colse inoltre un invito a pensare: “non c’è madre veramente amorosa che nel suo ultimo giorno, e spesso molto prima, non possa rivolgere questo rimprovero al figlio. In fondo, noi invecchiamo, noi uccidiamo tutti quelli che ci amano con le preoccupazioni che procuriamo loro”.

Non avere fretta significa lasciare che le esperienze che facciamo liberino tutto il loro significato e che ci parlino di noi, di chi siamo e di chi vogliamo essere.

Che cosa dice di voi l’ultima notizia che avete letto sul web? E l’ultimo piatto che avete cucinato o che vi è stato servito?

2-    Usare sofferenze e preoccupazioni come esercizi per la mente.

“La felicità fa bene al corpo”, afferma Proust, “ma è il dolore che sviluppa la forza della mente”. Le sofferenze, le ansie, le paure, ci fanno fare una sorta di ginnastica mentale che avremmo evitato in momenti più felici.

Pensiamoci. Il dolore ci sorprende sempre: non capiamo perché non riusciamo a dormire la notte o perché proprio non ce la facciamo a restare concentrati su un film o su un libro senza che l’ansia ci assalga. Questo ci sprona a cercare di comprendere le cause del nostro malessere, stimola la conoscenza di noi stessi.

“Le idee sono i succedanei dei dolori; nel momento in cui questi si trasformano in idee, perdono una parte della loro azione nociva sul nostro cuore”.

Proviamo quindi a non imboccare scorciatoie: “L’ansia mi assale perché in giro c’è il coronavirus”. Risposta affrettata: prendiamoci il tempo.
Chiediamoci: perché rispondo a questa situazione con ansia? Che cosa dice di me questa tachicardia? Quali pensieri porta con sé l’insonnia?

3-    Usare parole autentiche.

Proust odiava i luoghi comuni. Non sopportava gli slogan. Non tollerava che la gente si esprimesse nello stesso modo, usando le medesime parole, gli stessi concetti, le descrizioni usate da tutti. Oggi, certamente odierebbe l’ossessione per gli #hashtag: 
#iorestoacasa #iononpossomavoirestateacasa e via discorrendo.

Proust amava la bellezza, anche nel linguaggio. Può però essere bello solo “ciò che porta l’impronta della nostra scelta, del nostro gusto, della nostra insicurezza, del nostro desiderio e della nostra debolezza”. Occorre quindi dare un’impronta personale a quel che si dice, per rivestirlo di significato e di bellezza, ma soprattutto per renderlo autentico.

I luoghi comuni, gli slogan e gli hashtag sono nemici della varietà e della diversità dell’esperienza. Ci sono molti modi di stare a casa e molti sentimenti legati allo stare a casa che non possono essere espressi da una frase convenzionale o da un hashtag.

C’è chi vive in una villa con piscina, chi soggiorna in una comunità per immigrati, chi abita in un appartamento al quinto piano, chi si trova per strada e si copre appena con un cartone. C’è chi in casa si sente stretto, chi ha troppo caldo, chi ha freddo, chi si annoia, chi si sente solo e chi si sente amato. C’è chi ha la febbre e teme di avere il coronavirus, chi ce l’ha e spera di non aggravarsi, chi non ha febbre ma lotta con altre malattie, chi è sano e chi si occupa di qualcuno che è malato. E così via.

Con quali parole esprimeresti il tuo rapporto con questo parziale isolamento e con la tua casa e le sue stanze?

#trovailtuohashtag


4-    Cambiare sguardo.

In uno dei suoi saggi, Proust dichiara di voler restituire il sorriso al volto di un giovane triste e insoddisfatto. Seduto al tavolo da pranzo, in un giorno qualsiasi, questo ragazzo fissava avvilito l’ambiente circostante: un coltello rimasto sulla tavola, i resti di una cotoletta troppo cotta e senza gusto, una tovaglia piegata a metà, sua madre seduta in un angolo della sala da pranzo, a fare la maglia, e il gatto raggomitolato in cima a un armadio.

Come sfuggire alla banalità e alla routine dell’ambiente domestico? Tutti i giorni, le stesse scene, lo stesso tavolo, le stesse cose. Che noia!

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Proust conduce il giovane in visita al Louvre e in particolare alle sale che ospitano i quadri di Chardin, un pittore cui piaceva rappresentare fruttiere, brocche, caffettiere, pagnotte, coltelli e bicchieri di vino. Rappresentava anche persone, perlopiù impegnate in azioni quotidiane come leggere un libro, cucire, portare a casa il pane dal mercato.

Nonostante rappresentino soggetti e scene piuttosto comuni, davanti ai quadri di Chardin si resta affascinati. Per gli accordi cromatici, per la sensualità di ostriche e crostacei, per l’incanto delle forme.

Proust spera che il giovane sia rapito dalla bellezza e che essa eserciti su di lui il suo potere. In questo modo, potrà avvenire una vera e propria trasformazione spirituale, tale per cui in futuro:

“Camminando su e giù per una cucina, potrete dirvi: è grande, è bello come uno Chardin”.

Dovremmo pensarci, quando osserviamo desolati la nostra scrivania o il nostro divano, invidiando chi può stare all’aperto nel proprio giardino; oppure quando ci immergiamo nella nostalgia degli aperitivi e delle cene al ristorante che potevamo fare in tempi normali, guardandoci intorno sconsolati e sentendoci stretti tra quattro mura.

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Poso lo sguardo sulla mia tavola e penso a quel certo Chardin. Osservo la mia stanza e ricordo un Van Gogh. Con occhi nuovi, cerco la bellezza dove prima non l’avrei cercata.

E, si sa, chi cerca, trova.

5-    Non perdere gli amici.

Di questi tempi, è dura coltivare le amicizie. Però, non è impossibile. Possiamo telefonare, scrivere un messaggio o un’email, videochiamarli su Skype.

L’importante, avrebbe detto Proust, è non perderli.

Proust amava i suoi amici e ne era profondamente riamato. Tutti ne esaltavano la gentilezza e la rara qualità di percepire l’umore degli altri, prodigandosi sempre a rendere ognuno il più possibile allegro. Offriva cene luculliane al Ritz a tutti gli amici e alle amiche, durante le quali non parlava molto di sé, occupandosi piuttosto di informarsi della vita e di come stessero gli altri.

Potrebbe sorprenderci il fatto che Proust non avesse una gran considerazione dell’amicizia, sostenendo addirittura che essa non esista o definendola non più che come “una bugia che cerca di farci credere che non siamo irrimediabilmente soli”.

In realtà, Proust non credeva all’amicizia, ma confidava negli amici. Nel senso che l’amicizia, intesa come rapporto in cui essere perfettamente noi stessi, sempre, in compagnia all’amico, per Proust è un’assurdità. Con gli amici, per esempio, non si può essere sempre sinceri, dicendo in ogni occasione quel che si pensa di loro: li si offenderebbe a morte.

Ciononostante, l’affetto degli amici è fondamentale e va tenuto ben stretto.

Oggi Proust ci consiglierebbe di prenderci del tempo per gli amici. Il che non significa semplicemente scambiarsi opinioni o chiedere consigli. In fondo, questi potrebbero anche non essere sempre reciprocamente sinceri.

Piuttosto, si tratta di gustare l’affetto che possono regalarci. Ricambiando con altrettanto calore, anche solo attraverso lo schermo di un pc.

E voi? L’avete già chiamato quel vostro amico…?

6-    Non fidatevi del metodo di Proust.

Gli articoli come questo, i libri, i giornali, tutte le nostre letture non vanno presi troppo sul serio. Quantomeno non così tanto da considerarli “conclusivi”.

“La lettura si arresta alle soglie della vita spirituale; può introdurci in essa, ma non la sostituisce”. Come a dire: oltre al metodo Proust, ora tocca a te.

“Finché la lettura resta per noi l’iniziatrice, le cui chiavi magiche ci aprono, nel profondo di noi, la porta delle dimore in cui non avremmo saputo penetrare da soli, la sua funzione nella vita è salutare. Diventa invece pericolosa quando, in luogo di destarci alla vita personale dello spirito, tende a sostituirsi ad essa”.

Volete un tempo più salutare?

Mettete da parte questo articolo e prendetevelo. Ne avete tutto il tempo.

Bibliografia
De Bottom A., Come Proust può cambiarvi la vita, Guanda, Parma, 2010.

Nussbaum M., L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, 2009.

Proust M., Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano, 1983

       , Scritti mondani e letterari, Einaudi, Torino, 1984;

       , Lettere, La Nuova Italia, Firenze, 1972;

       , Giornate di lettura. Scritti critici e letterari, Einaudi, Torino, 1958.

Autore:
Maddalena Bisollo
Direttrice Scuola Pragma Milano

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