ALLENARE IL PENSIERO PRATICO
Stefania Contesini
Recensione di Elisabetta Zamarchi
La tesi intorno alla quale Stefania Contesini sviluppa il suo testo – “le questioni che interrogano le imprese, e in generale il mondo delle organizzazioni, sono questioni di e per la filosofia” (Contesini, p.11) – mostra, già nell’introduzione, che lo scopo del libro è quello di costruire un collegamento tra “sapere filosofico, esperienze d’impresa e competenze organizzative”, attraverso lo strumento del pensiero riflessivo, declinato in quattro “competenze”: pensiero critico, pensiero creativo, pensiero emotivo-relazionale ed etico (Ibidem).
Questa tesi di fondo appare, al lettore, quasi come una doppia sfida rispetto alla vulgata dell’opinione comune in merito al sapere delle organizzazioni produttive e al sapere filosofico. Da un lato, infatti, si problematizza un certo modo di rappresentare il “fare impresa” legato a un paradigma strettamente economicista, ancora radicato nel costrutto dell’homo oeconomicus (Ivi p.47). D’altro lato, si decostruisce l’idea, di derivazione classica, di un sapere filosofico teso unicamente alla “ricerca e produzione di conoscenze generali e astratte e del primato della teoria pura”. Entrambe le sfide si snodano nel testo, spesso intrecciandosi tra loro, attraverso una felice commistione di pars destruens e pars construens.
La pars destruens appare già dal primo capitolo, là dove viene messa “sotto sospetto”, a proposito del fare impresa, la razionalità calcolante che persegue la via stretta e immediata dell’efficacia, concentrandosi unicamente sull’identificazione di mezzi atti a realizzare determinati scopi, con l’effetto pragmatico di un appiattimento sulla “dimensione strumentale e performativa del comportamento”. Il che va a scapito di quella razionalità riflessiva che consentirebbe, come suggerisce la citazione da Simone Weil, di indietreggiare rispetto all’impatto immediato con un problema, evitando così di farsi fagocitare da esso (Ivi, p. 29).
Fin dall’inizio assume consistenza, quindi, la legittimità di una domanda strutturale sul valore delle competenze in ambito professionale e non solo: quando e come si è o si diventa competenti? Che significa possedere una competenza? Possedere una competenza significa, si legge nel testo, essere consapevoli di che cosa si è in grado di fare con ciò che si sa. Il divenire competenti di qualche cosa appare allora come l’esito di una pratica.
Il concetto di pratica rappresenta il fulcro dell’intera riflessione di Stefania Contesini: le pratiche grazie alle quali si snoda la nostra vita quotidiana sono spesso irriflesse, in quanto habitus interiorizzati e stratificatisi nel tempo per tradizione o per disposizioni sedimentate. Ogni competenza, perciò, deriva da una pratica, ma, in quanto tale, non è meramente proprietà di un soggetto isolato ma ha una natura intersoggettiva, è cioè una proprietà emergente dell’unità soggetto in-situazione (Ivi p.40). Una proprietà che però necessita di essere esplorata, indagata per comprenderne l’origine valoriale e, al tempo stesso, individuarne il funzionamento automatico. Si tratta di un’azione di cura, cura del proprio fare e cura di sé (Ivi p. 49): in tale cura si concretizza la pars construens del testo, che propone l’ allenamento al pensiero pratico, quel pensiero che si chiede lo scopo e le motivazioni di un certo fare, oltre che le ragioni profonde di un determinato sentire in quell’azione, in quell’agito.
Con il concetto di cura, da un lato si introduce la valenza e l’importanza del pensiero critico che, nelle organizzazioni, può fornire “competenze cognitive, emotive e sociali” per produrre senso nel proprio lavoro” (Ivi,p.49). Dall’altro vi è il richiamo sia alla tradizione filosofica dell’antichità, centrata sulla cura di sé, sia al pensiero della modernità che inaugura la costruzione di un sapere critico, razionalmente fondato.
Si intrecciano così, come osservato sopra, le due sfide alla decostruzione degli stereotipi che ancora alimentano la cultura delle organizzazioni e l’idea di un logos filosofico del tutto astratto e scevro da compromissioni con il divenire dell’esistenza. Viene, infatti, teoricamente e praticamente mostrato, come la cultura delle aziende necessiti della riflessività, propria della filosofia, per maturare competenze di concettualizzazione sul piano teorico per una corretta azione in contesto, al fine di maturare la metacompetenza della costruzione di senso. Mentre, sul versante del sapere filosofico, appare come tale sapere ritrovi, anche applicato alle organizzazioni, il suo scopo originario, quello di “aiutare le persone a orientarsi nel mondo” attraverso la comprensione dell’ordine delle cose e degli eventi, grazie a quella sensibilità al contesto necessaria a realizzare la finalità pratica del “ben vivere”.
Quale orientamento può fornire il pensiero critico al mondo delle organizzazioni, la cui la finalità pratica è quella di migliorare la propria azione? Il pensiero critico, ci spiega Contesini, può servire a sviluppare alcune competenze chiave per “trovare e adottare le soluzioni migliori, le più affidabili ed efficaci per risolvere problemi di varia natura”. (Ivi pp.53/54) Competenze chiave che consentano di “ ben giudicare – una situazione, un problema, una tesi, un’idea, un set di informazioni – per arrivare a formulare una scelta (meditata, riflessiva e dunque ‘solida’) e quindi a intraprendere un’azione conseguente, ogni volta che la situazione lo richiede“.
Ma una precipua comprensione del contesto e dei concetti grazie ai quali si giudica, e successivamente si opera, è possibile soltanto se il pensiero critico-argomentativo si nutre della sua potenzialità creativa, da un lato, e se tiene conto, d’altro lato, della portata cognitiva del mondo emozionale, il mondo della vita affettiva che fa da sfondo al nostro modo di recepire e valutare l’esperienza.
Il capitolo IV è, infatti, dedicato al pensiero emotivo-relazionale: dagli anni Novanta, epoca in cui si consolida “l’attenzione nei confronti della natura sociale e relazionale dell’individuo” (Ivi p.99) entra nel linguaggio delle organizzazioni l’espressione “competenze emotive”, per indicare quelle qualità umane che facilitano la relazione con gli altri e che consentono di comprendere quali desideri motivino a una data azione. Anche in quest’ambito ritorna la nozione di cura: prendersi cura del pensiero emotivo-relazionale vuol dire non solo migliorare il rapporto con sé stessi, ma anche -soprattutto in ambito professionale – saper riconoscere lo sfondo affettivo delle proprie convinzioni e dei propri valori.
Va sottolineato, infine, l’accento posto nel testo sulla portata originale del pensiero creativo, ovvero sulla creatività in quanto capacità di individuare nuove connessioni tra individui e oggetti (Ivi p. 84). Una capacità che appartiene alla filosofia, proprio perché essa è una disciplina che non si accontenta di ciò che è, ma che tende a un “trascendimento del reale” (Ivi p. 87) grazie alla facoltà dell’immaginazione, facoltà prospettica, orientata al futuro che, aprendo la visione della realtà ed evocando possibilità non immediatamente discernibili, ha una valenza proattiva per la cultura delle imprese, oltre che una valenza rispetto alle scelte etiche sia sul piano aziendale che personale.
A proposito dell’ambito semantico del termine “immaginazione” in questo contesto filosofico, va qui sottolineata la dissonanza di significato rispetto all’uso dello stesso termine nel lessico della psicoanalisi lacaniana, di derivazione freudiana, ove l’immaginario nutre le costruzioni fantasmatiche di attaccamento al passato della storia individuale e l’immaginazione è quindi la facoltà che rende possibile il ripresentarsi delle esperienze vissute.
Rilevare tale dissonanza ci è utile qui per dare ancor più valore alla tesi di questo testo: i nostri giudizi prendono forma da un certo codice linguistico e da una certa abitudine a praticarlo. Svelarne la provenienza, decifrando l’origine delle parole con cui mettiamo in forma i pensieri, è l’unica via per capire come si pensa e perché. Se questo vale sempre a livello personale, ancor più ha valore in una cultura stratificata e complessa come quella di un’organizzazione, a cui spetta la riflessione etica sui criteri e sui fini del proprio agire, poiché è ormai un dato socialmente acquisito che “ogni attività umana che si prefigge uno scopo è sempre anche un’attività moralmente connotata” (Ivi p.156).
Credo appaia chiaramente, da quanto esposto fino a qui, che questo libro si propone come uno strumento per la cultura aziendale e per l’emersione dei valori – che quella data organizzazione ritiene di voler perseguire – attraverso un cambio di paradigma sul rapporto pensiero/azione, cioè “favorendo il passaggio da una concezione dell’azione come esecuzione a una che incorpora il pensiero” (Ivi, p.163). Un passaggio non facile, non di immediata esecuzione, perché richiede non solo un mutamento di prospettiva teorica ma una conseguente modulazione dell’agire.
Un passaggio che richiede un progressivo cambiamento non solo nelle politiche aziendali, ma anche nel modo di modellare sé stessi per tutti coloro che sono i protagonisti, gli attori di tali politiche.
Per questo la seconda parte del testo, dedicata all’allenamento del pensiero pratico, si presenta come una palestra di esercizi per lo sviluppo di nuove competenze, nella convinzione teorica che, come scrive Peter Sloterdijk, un esercizio non è un mero strumento per cimentarsi e addestrarsi, ma “un modo d’essere attraverso cui un individuo modella sé stesso” (Ibidem).
In tal senso il libro di Stefania Contesini può divenire uno strumento per chiunque voglia cambiare la propria vita e divenire soggetto, eliminando da sé stesso la passività del pensare e l’automatismo dell’azione (Ivi p. 164).
Contesini S., Allenare il pensiero pratico, Mimesis, Milano, 2023.
Ho sostenuto nel mio fare e nel mio dire un pensiero creante rispetto ad un pensiero vendente che riduceva ogni atto di vendita ad un venduto.
Ora mi da gioia condividere un “pensiero pratico” poiché il crearr è già un praticare.
Grazie.
posso iscrivermi?