«Modello della ricezione sensoriale oggi non è, come nella tradizione greca, il vedere; né, come in quella ebraico-cristiana, l’udire, bensì il mangiare. Siamo stati spinti in una fase orale industriale, nella quale la pappa culturale scende giù liscia».(Anders, L’uomo è antiquato,Vol. II)
«Chi è l’Inghiottitutto?» chiese UK.
«È un pesce enorme che nuota continuamente e inghiotte tutto, tutto quello che si trova sul suo cammino».
In una favola per l’infanzia del poeta e scrittore inglese Anthony Ginn (1984), ambientata negli abissi marini, compare uno strano personaggio, una gigantesca manta, che si aggira sul fondo del mare ingoiando indistintamente ogni sorta di pesci e di detriti. Inghiotte-tutto senza sapere esattamente che cosa; va alla cieca su tutto ciò che si muove e che non si muove. Si tratta di un personaggio davvero particolare, in quanto assolutamente passivo in rapporto allo svolgersi della vicenda; l’unica attività che compie è quella di assimilare il cibo che il mare fornisce, nient’altro.
Il solo movimento che fa, avviene quando qualcuno cerca di catturarlo. Strappato al suo habitat naturale, l’Inghiottitutto si trova assolutamente spaesato:
«Glù, glù, gl…Ehi, che sta succedendo? Lasciatemi subito! Sto morendo di fame, devo nutrirmi io!».
L’Inghiottitutto non conosce altra esistenza se non quella fondata sulla nutrizione continua e sulla totale immedesimazione con l’ambiente: egli mangia tutto quel che trova, non sa fare altro. Fintanto che conduce la sua vita tranquilla sul fondo del mare, non ha bisogno di compiere alcuna azione in proprio; non sa neppure parlare – non ne ha motivo; solo un insignificante e monotono «glù, glù, glù» accompagna il suo eterno nutrirsi.
L’Inghiottitutto, in fondo, pensa di essere assolutamente libero ed è sicuro di vivere nell’unico mondo che gli possa garantire questa libertà; ne è persuaso al punto tale che, trasportato in superficie in seguito alla cattura, teme di non sopravvivere: egli sente soltanto il vuoto e la privazione. Egli si caratterizza dunque per una libertà di tipo negativo, una libertà da coercizioni; manca invece di capacità creativa: l’Inghiottitutto non sviluppa una propria personalità, non esprime un pensiero critico, non riconosce altro senso alla propria esistenza se non quello di assimilarsi al mondo che lo circonda, e di conseguenza non elabora alcun linguaggio, che del senso è il veicolo.
È il modo stesso della nutrizione ad impedire il salto ad una vita attiva, consapevole, significante. La cospicua quantità di cibi di cui il mare rifornisce l’Inghiottitutto, infatti, non viene filtrata; la grande manta la assorbe tutta senza fare distinzione tra un cibo e l’altro. L’Inghittitutto non se ne accorge, ma in questo modo diventa ciò che mangia: un essere indistinto, senza specificità.
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L’esistenza dell’Inghiottitutto appare in effetti come la metafora adeguata di quello che Anders definisce «congruismo», traducibile come una sorta di conformismo “all’ennesima potenza”. Il «congruista» è il «conformista ottimale» (Vol.II), cioè l’uomo perfettamente adattato e adeso al sistema della società occidentale in cui vive. Si tratta di un individuo costantemente permeato dal mondo cui è destinato, tanto da diventare ad esso del tutto coestensivo, «come la spugna con l’acqua». La sua anima è «terribilmente sovraccarica», poiché le affluisce dentro tutto un mare di merci, di opinioni, di sentimenti, ecc. Ben lungi dall’essere un uomo “vuoto”, il congruista è invece pienamente occupato dal materiale che gli viene somministrato; in modo così perfetto che non c’è più spazio per il Sé.
La forma di consumo che più avvicina l’uomo di oggi al congruismo, come sostiene lo stesso Anders, è quella del consumo mediatico. Quest’ultimo ha assunto nel nostro tempo una posizione di monopolio tra le diverse “forze di formazione” che intervengono sull’individuo.
La radio, la televisione, il computer, il tablet e lo smartphone sono evidentemente ben più che semplici elettrodomestici: sono il tramite tra noi ed il mondo che ci circonda. Ognuno collegato ad altre radio, altre televisioni, altri computer, altri smartphone disseminati sulla terra, insieme ad essi va a costituire una rete, che filtra ogni evento. All’esperienza diretta d’età pre-tecnologica, si sostituisce oggi l’esperienza virtuale del mondo: abbiamo così la possibilità di essere informati circa una quantità vastissima di avvenimenti, che altrimenti non potremmo mai arrivare a conoscere; si accorciano le distanze spazio-temporali e tutto diventa ugualmente vicino e presente.
Senza minimamente svalutare l’importanza di tale prerogativa del post-moderno – di avere tutto il mondo a portata di telecomando o di mouse–, dovremo però riconoscere gli effetti prodotti da questo rapporto con il mondo sulla personalità. Il modo in cui oggi parliamo, amiamo, pensiamo (o non pensiamo) non dipende più, infatti, semplicemente dall’educazione ricevuta in famiglia o a scuola, ma in maniera preponderante da quell’enorme macchina di cultura che sono i mass-media: «religione, politica, mercato, guerra, gioia, dolore, morte sono descritti lì, e da lì ognuno apprende come si prega, come si governa, come si vende, come si compra, come si lotta, come si gode, come si soffre, come si muore, allo stesso modo di come un tempo queste cose si apprendevano dal mondo in cui si viveva» (Galimberti, 1999). Le immagini di cui costantemente ci nutriamo non semplicemente rappresentano il mondo, ma sono il nostro mondo, sulla base del quale impariamo a rappresentarci cose ed eventi e a farne esperienza.
L’industria dell’entertainment ci solleva inoltre dall’impegno di “fare qualcosa di noi stessi” nei momenti d’ozio e di destinare ad uno sviluppo creativo le energie psichiche non investite nella professione. Alla prospettiva di compiere uno sforzo – richiede infatti fatica l’interessarsi attivamente alla propria esistenza –, sostituisce la prospettiva certo più allettante di assistere ad uno spettacolo. La psiche viene in-trattenuta da tutto un sistema di informazione e divertimento, che da un lato la libera dall’onere di gestire la sua relazione con il mondo – mediata attraverso la notizia – e dall’altro, la stimola emotivamente, attraverso la trasmissione di una molteplicità di show, film, telefilm, cartoni animati, ecc.
L’ “effetto congruismo” che il sistema mediatico produce sull’Io individuale, lo possiamo delineare per alcuni tratti.
• Omologazione.
Come per la manta immaginaria la possibilità di mangiare tutto si traduceva inevitabilmente nella necessità di una costante ed onnivora nutrizione, così per l’uomo di oggi poter essere informato di tutto, significa doversi adeguare ad una tale imponente informazione. Non essere informati, non è consentito. Ci è tolta sempre di più la possibilità di non ascoltare e di non vedere, di fare in qualche modo resistenza e di conservare uno spazio d’interiorità, una riserva di significati soltanto “nostri”. Difficile, dunque, resistere all’omologazione: se pure ognuno privatamente, siamo tutti riforniti delle stesse informazioni, la necessità d’essere informati si traduce infine nella necessità stessa di un sempre più profondo livellamento.
Il sistema ci costituisce come massa, lasciandoci tuttavia l’illusione di una vita privata ed autonoma: attraverso i mezzi di comunicazione, infatti, ognuno di noi riceve il mondo – un mondo uguale per tutti – a domicilio; ognuno da solo, seduto sulla poltrona del proprio salotto o alla sedia di fronte alla scrivania, davanti alla tv o al computer, fruisce di immagini e di significati confezionati per tutti e profondamente uniformanti; dunque ognuno di noi si configura come un solista del consumo di massa (Anders, Vol.I).
Naturalmente, come non si decide volontariamente di conformarsi al sistema tecnico che ci involge, così non ci si omologa servendosi dei mezzi di comunicazione, ma si viene da essi omologati. Se di tale omologazione non ci avvediamo è per il fatto che, così come il dominio della tecnica non è avvertito quale coercizione ma nei termini di semplice condizione del vivere e dell’agire, allo stesso modo l’omologazione mass-mediatica non ha i caratteri dell’esplicita imposizione, bensì l’accettiamo come parte integrante del nostro essere al mondo – e a maggior ragione se si presenta a noi nelle vesti del divertimento e dello svago.
• Deglutizione acritica.
In seconda istanza, l’effetto-congruismo riguarda la modalità secondo cui ci nutriamo di informazioni, il fatto cioè che non mastichiamo il cibo che ci viene fornito. Ogni trasmissione infatti non è infine che una merce, e come tale «deve venir servita in condizione tale da soddisfare l’occhio e l’orecchio, quanto più possibile pronta per il consumo, priva di tutto quanto ci è estraneo, disossata, assimilabile». Pre-digerita, la trasmissione non richiede d’essere filtrata e distoglie il consumatore dallo sforzo critico di discriminare sia tra il prodotto che gli viene fornito ed il mondo reale, che tra i diversi tipi di prodotto che va a consumare; «la quotidiana, incessante ipernutrizione a base di fantasmi che si presentano in veste di “mondo” ci impedisce sempre di provare fame di interpretazione, di interpretazione personale; …quanto più veniamo rimpinzati di mondo arrangiato, tanto più dimentichiamo questa fame». Ognuno prende infatti per buono ciò che il sistema mediatico presenta come “il mondo”, benché ciò non sia evidentemente che un’immagine del mondo stesso ed un giudizio precostituito su di esso. Non ci si avvede che non è l’evento in sé ad essere trasmesso, ma solo qualcosa su di esso o un momento di esso.
Ancor meno evidente è il fatto che, dato il carattere di merce che contraddistingue tutte le trasmissioni, in esse si trovi già insito il loro senso: esse recano cioè in se stesse i pensieri ed i sentimenti che devono produrre nel consumatore. La reazione che si richiede da noi è quindi di volta in volta fornita con i prodotti che consumiamo.
• Imprigionamento emotivo.
I mass-media costituiscono una grande “macchina per la gestione delle emozioni” – cosa che li rende tanto più attraenti ai nostri occhi, bisognosi come siamo di trovare una qualche collocazione alla nostra emotività inespressa. Se nella professione e nella gran parte dei rapporti interpersonali che viviamo quotidianamente le emozioni vanno trattenute, è invece proprio sulle emozioni che fa perno l’industria mediatica.
Non è vero che rimaniamo del tutto insensibili alle tragedie che colpiscono l’umanità; tuttavia non si può negare che l’intensità della nostra partecipazione è strettamente connessa all’intensità con cui la notizia viene presentata, così come la memoria di un evento – tragico o felice che sia – è legata alla frequenza con la quale i mezzi di comunicazione se ne occupano. Come sostiene Guy Debord: «ciò di cui lo spettacolo può smettere di parlare per tre giorni è uguale a ciò che non esiste. Perché allora parla di qualcos’altro, e quindi è quella la cosa che, a partire da quel momento, in definitiva esiste» (1988). Opportunamente modulata, la nostra attenzione smarrisce la sua forza vitale; scissa dall’esistenza e dai rapporti sociali concreti – ogni trasmissione infatti si riceve contemporaneamente, ma non insieme agli altri –, viene irretita e destinata ad un mondo virtuale.
L’assorbimento delle nostre emozioni da parte del sistema mediatico – un mondo “fantasma” fatto di voci e di immagini anonime ed inconsistenti – illude la nostra capacità emozionale, realizzando in verità l’alienazione dai nostri stessi sentimenti. Se infatti le emozioni si dirigono su oggetti virtuali, esse sono subordinate all’assoluto distacco: incapaci di riferirsi ad alcunché di reale, i sentimenti si riversano su qualcosa di “vuoto”. Qualsiasi sentimento allora, poiché si rivolge semplicemente ad uno spettacolo, non si concede in modo incondizionato ma si articola entro la prospettiva di poter in ogni istante essere ritirato. Il rischio, naturalmente, è quello che questo modo di sentire senza effettiva partecipazione, essendo l’unico costantemente “allenato”, impedisca il contatto con la realtà nel momento in cui questa inaspettatamente poi bussa alla nostra porta.
«È come quando, al cinema, la protagonista si lascia sfuggire l’occasione di vincere centomila dollari, e il pubblico scoppia a piangere. Ma queste stesse persone, nella vita reale, possono assistere a un’immane tragedia a due passi da loro senza commuoversi e senza provare nulla, perché di fatto non hanno alcun rapporto con il mondo che le circonda, e che non le riguarda. Vivono nel vuoto dell’astrazione, dell’alienazione dalla realtà dei loro sentimenti» (Fromm, 1991).
Quanto più veniamo proiettati nel fantomatico e nel lontano, tanto maggiormente veniamo allontanati dalle questioni che ci riguardano da vicino. Le emozioni che albergano in noi cercano sfogo, ma se costantemente vengono pilotate verso un mondo evanescente nel totale distacco dal reale, perdono di contenuto, di significato, di energia. Non più una relazione attiva con il mondo arricchita dall’esperienza emotiva, allora, ma un’emotività impoverita dall’assorbimento nel mondo dell’immagine.
Caratteristica dell’uomo di oggi è «non solo che a causa dell’incessante scorrere del mondo esterno egli sia sempre altrove e mai a casa, dunque la perdita della sua sfera privata; ma che nello stesso tempo…egli è dovunque e sempre a casa. Di qui la perdita dei suoi sentimenti per il mondo esterno, ovvero l’elefantiasi della sua sfera privata» (Anders, Vol.II).
Svuotati e deprivati del loro legame con l’esistenza concreta dell’individuo, i sentimenti – ma lo stesso accade per i pensieri – vengono risucchiati nella virtualità; in questo modo non solo si riducono all’ombra di se stessi, ma cedono al sistema e da esso sono strumentalizzati. Desideri ed emozioni vengono suscitati e manipolati per accrescere l’audience, oggi perfino per incrementare quella grande “raccolta fondi” cui sono adibite le cosiddette “votazioni” tramite sms dei personaggi preferiti dei reality-show,e naturalmente per incitare ognuno a seguire i dettami della pubblicità in fatto di moda e di acquisti. Poiché l’uomo di oggi non è semplicemente richiesto come forza-lavoro ma anche come forza-consumo, i suoi bisogni ed i suoi desideri vanno stimolati attraverso la promessa del godimento, per mantenere vitale il sistema produttivo. Nella nostra società «ogni desiderio ‘liberato’ è liberato solo perché già è stato catturato nella rete del potere e nell’ordine delle sue parole» (Galimberti, 1987); i desideri vengono provocati solo per essere subito assorbiti dal meccanismo, tanto più che ogni eccedenza rispetto al codice sistemico costituisce una minaccia costante di disordine, e va scongiurata.
Così le immagini e le parole trasmesse dai media evocano il desiderio e lo se-ducono – letteralmente lo “adducono a sé” – tramite la stimolazione dell’immaginario, mentre noi, che certo consumiamo molte più immagini che non merci concrete, partecipiamo ad un pericoloso gioco virtuale, dove il desiderio rimane come sospeso, si nutre di promessa e di vuoto e ci è infine irrimediabilmente alienato.
• Il lògos intrappolato.
Come per il desiderio ed il suo veicolo, che è il corpo, così per il pensiero ed il suo veicolo, che è la parola.
«…Le parole sono diventate esse stesse immagini e hanno finito per servire, come le immagini visuali, da strumenti di manipolazione e di controllo psicologico. Lo studio dell’umanità è diventato un’altra tecnica per dominare l’umanità. L’osservazione scientifica e sociologica abolisce il soggetto rendendolo “soggetto” di esperimenti intesi a scoprire la sua risposta a una serie di stimoli, le sue preferenze, le sue fantasie private. Sulla scorta dei risultati ottenuti, la scienza costruisce un profilo composito dei bisogni umani, su cui basare un sistema di regole di comportamento insinuante ma non apertamente oppressivo» (Lasch,1984).
Il rifornimento a domicilio del mondo e delle parole che lo descrivono, fa degli individui dei voyeurs, che non fanno più esperienza di cose ed eventi, ma si nutrono dei loro fantasmi, e li castra nella personale elaborazione del significato e del linguaggio per esprimerlo.
«In verità, dato che la parola è loro garantita e versata bell’e pronta nell’orecchio, hanno cessato di essere ζωα λόγον έχοντα [animali che hanno il linguaggio], allo stesso modo come, in quanto mangiatori di pane, hanno cessato di essere homines fabri: perché, come non cuociono più da sé il pane, così non formano da sé le parole di cui si nutrono. Per loro le parole non sono più qualche cosa che si profferisce, ma qualche cosa che si sente soltanto; per loro parlare non è più qualche cosa che si fa, ma qualche cosa che si riceve» (Anders, Vol.I).
Il mondo viene a noi e noi, anziché andargli incontro e rivestirlo delle nostre soggettività, non siamo ormai che dei consumatori senza facoltà d’intervento e senza voce, poiché il mondo ci rivolge la parola senza che noi possiamo a nostra volta rivolgerla a lui. “Abbiamo” il logos, in un senso assai diverso da quello inteso da Aristotele; lo abbiamo non come facoltà che è nostra, ma come in-formazione ricevuta; disimpariamo dunque a parlare, poiché le parole sono diventate prodotti di consumo e disimpariamo allo stesso tempo anche a comunicare tra di noi, perché se tutti ascoltano e sanno le medesime cose, viene meno la distanza tra il mondo dell’uno e dell’altro individuo, che sola rende necessaria e reciprocamente arricchente la comunicazione. Quando ognuno sa dire soltanto ciò che potrebbe ascoltare da chiunque altro, il parlare-insieme (mit-sprechen) si fa superfluo; le nostre parole sempre più spesso non comunicano (dal latino communis, è “mettere in comune”), bensì rimbalzano dall’uno all’altro interlocutore senza che si stabilisca alcune “comunione”, alcun contatto essenziale.
• Destrutturazione della dimensione spazio-temporale.
In ultima analisi, di effetto-congruismo possiamo parlare a proposito della deformazione nella percezione dello spazio e del tempo, prodotta dai media. Come abbiamo già avuto modo di osservare, una nutrizione continua e non filtrata, ci rende coestensivi al mondo di cui siamo riforniti; cadono infatti le pareti che delimitano e difendono il privato e l’individualità e ciascuno di noi ha l’impressione di poter essere dappertutto pur restandosene “a casa”. Tale è la nostra «schizotopía» (Anders, Vol.II) – la nostra duplicità spaziale, per cui ci troviamo qui e altrove al medesimo tempo – che ci crea non poca agitazione se una volta dobbiamo trattenerci nel “qui”, cioè in uno spazio solo “nostro”, ad esempio per l’interruzione delle trasmissioni televisive, o perché il nostro cellulare “non ha campo”, oppure ancora perché è scarico e non ci permette di collegarci in rete quando ne sentiamo l’esigenza. In una condizione tale, benché solitamente non ce ne avvediamo, viene ad essere penalizzato tanto il rapporto con il nostro privato, dal quale ci troviamo subito alienati, quanto il rapporto con l’altrove, che ci è presentato sempre e solo sotto forma di immagine: essere dappertutto, del resto, è infine lo stesso che non essere in alcun luogo.
La schizotopía – in quanto patologia dello spazio – si accompagna poi sempre ad una percezione alterata anche del tempo, per cui il presente viene dilatato all’infinito, in un orizzonte metatemporale al di là di ogni tempo e di ogni spazio storici. L’essere-nel-mondo è strutturato in modo tale che il mondo si dispone intorno all’uomo in cerchi concentrici più vicini e più lontani; se tutto diviene ugualmente prossimo, l’individuo ne risulta snaturato; si ritrova senza spazio, poiché ogni distanza è abolita, ma anche senza tempo, poiché tutto accade nel medesimo istante. C’è modo e modo di vivere il presente: affinché il rapporto con questa dimensione temporale sia espressione della nostra esistenza nella sua relazione concreta con il mondo, deve esserci un legame con il “prima” e con il “dopo”, con il mio passato e con i progetti che ho per il futuro. Se mi lascio invece assorbire dal presente, in realtà non mi temporalizzo – per usare un’espressione di Heidegger –, non mi relaziono al tempo come apertura di possibilità, ma trovo rifugio in una sospensione della temporalità, “faccio passare il tempo”, “ammazzo il tempo”, letteralmente.
Se le trasmissioni dei media compaiono contemporaneamente agli eventi che trasmettono, e quindi pare che ci permettano di fare esperienza del presente concreto e reale, in realtà il presente massmediatico scade nel mero simultaneo; ciò significa che non instaura un rapporto diretto e sostanziale tra noi e ciò che accade, ma ci costringe piuttosto ad un rapporto senza vitalità con immagini sincrone all’evento reale, rispetto alle quali la nostra esistenza non può prendere concretamente posizione. Per questo il grande rischio che oggi corriamo è che molte cose che ci riguardano realmente e che ci possono colpire, ci appaiano non effettivamente presenti, ma solo contemporanee, di una presenza cioè fondata sul distacco. Il rischio è l’indifferenza. Perché, se è vero che i media cercano in ogni modo di “fare la differenza”, di presentarci sempre nuovi stimoli, nuovi prodotti, nuove notizie, tuttavia la novità stessa alla fine scade nella ripetizione e – come vuole Pessoa – si genera «la noia della novità che è sempre uguale».
La noia è uno dei mali caratteristici dell’età postmoderna; uno stato d’animo in cui il tempo, lo spazio, il rapporto intellettuale ed emotivo con le cose, rimangono come “sospesi”. Certo, l’uomo si è sempre annoiato di fronte ad una situazione ripetitiva, alienante, e per questo appunto “noiosa”; tuttavia quando, come al giorno d’oggi, la noia non si lega più alla reazione ad una circostanza determinata, per diventare invece esistenziale e diffusa tra i più, occorrerà riflettere. Solitamente “scacciamo la noia” con l’iperattività o con l’ozio mediatico, così che spesso le nostre vite si riducono al lavoro durante la giornata, alla televisione la sera e infine al sonno notturno. Passano così, in un tempo non vissuto. E il vuoto rimane; resta la noia come aspirazione ad una “pienezza di vita” mai raggiunta.
Se s’inghiottono ore di lavoro e ore di consumo, non si sarà mai sazi. Perché la noia non è una questione di operosità o inoperosità, ma di significato.
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La favola di Ginn ha un lieto fine: l’Inghiottitutto, portato in superficie, salva l’ambiente marino, ingoiando con soddisfazione un’enorme macchia di petrolio che rischiava di mettere a repentaglio l’ecosistema. Nell’ora dell’estremo pericolo, l’Inghiottitutto si è risvegliato e con ciò ha salvato il suo mondo. Qualcosa tuttavia resta non detto. Precisamente, rimane oscura la fine stessa della grande manta; ora che si è resa consapevole che l’abisso non è in realtà il mondo intero, ora che sa dell’esistenza di altri luoghi e di altri cibi, ora che ha scoperto di poter parlare e di poter quindi articolare significati propri, che ne sarà di lei? Con tutta probabilità non potrà che tornare sul fondo del mare, per continuare a nutrirsi di tutto ciò che fornisce.
Tuttavia, la consapevolezza, se pure non avrà liberato l’Inghiottitutto dal suo mondo, l’avrà però certamente reso cosciente dello scarto esistente tra sé e l’ambiente in cui vive e tra l’ambiente e l’intera realtà. Così, sapendo dell’oltre che gli sfugge, egli perde il suo nome: non è davvero tutto quello che inghiotte, ma uno spettro del Tutto; lui stesso non si risolve in ciò che assimila, ma esistono facoltà nascoste che ora spingono per emergere dal sottosuolo della personalità.
Fintanto che c’è coscienza critica, il congruismo non è ancora realizzato.
Autrice: Maddalena Bisollo www.maddalenabisollo.com
Bibliografia
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