“La filosofia del presunto sapere: alcune domande provocatorie”
Sono stata stimolata a scrivere queste righe da un recente quanto bizzarro comportamento assunto nei miei confronti da una persona – a quanto pare uno studioso abbastanza conosciuto – su Facebook.
Il caso vuole che il signore in questione, autore di diversi saggi di filosofia e psicologia, tempo fa avesse scritto un articolo nel quale sferrava un attacco, molto ingenuo e ben poco argomentato, come vedremo tra poco, alla professione della quale mi occupo, la consulenza filosofica.
Ho così deciso di prendere le mosse da quanto accaduto sui social network, per produrre una riflessione più ampia su chi parla per supposto sapere.
Com’è noto, Socrate amava ripetere di non sapere nulla: la vera saggezza, diceva, risiede nella consapevolezza della propria ignoranza. Socrate rifiutava d’essere chiamato “maestro” e ancor di più di essere definito “sapiente”. Com’è risaputo, egli non smetteva di ripetere, a chiunque e in ogni circostanza, di non sapere nulla: l’unico sapere in suo possesso era il sapere di non sapere.
Interrogata da Cherofonte, la pizia di Delfi rivelò una volta che Socrate era da considerarsi il più dotto degli uomini. Egli ne diede la seguente spiegazione:
“È trasparente: (Apollo) indica il qui presente Socrate, usa per i suoi scopi questo nome mio, m’introduce come esempio, quasi per significare: ‘Uomini, nel vostro mondo, dottissimo è chi come Socrate ha capito che rispetto alla verità la sua dottrina vale zero’. (…) Perciò do appoggio al dio, rivelando che non esiste dotto” (Ibidem).
Di certo, questo socratico è un insegnamento molto difficile, poiché prevede di non dare mai per scontato nulla, rimettendo costantemente in discussione le proprie opinioni. Qualcosa di molto, molto raro di questi tempi.
Sarete curiosi, a questo punto, di capire che cosa abbia mai combinato il mio (ex-)contatto di Facebook. Ebbene, premetto che io e questa persona non ci siamo mai conosciuti personalmente né abbiamo mai avuto modo di parlarci, scriverci, confrontarci su alcun argomento: si trattava di uno di quelli che potremmo definire i contatti silenti, quelli che sono “amici” nel solo senso virtuale di questo termine.
Improvvisamente, eccolo spuntare dal suo silenzio con un commento apposto sotto a uno dei miei post, dedicato a una lettera inviatami da una giovane neolaureata in filosofia, curiosa di comprendere meglio il mondo delle pratiche filosofiche.
“Sei una consulente filosofica? Scusa, devo mantenere il distanziamento sociale”, firmato Marco Innamorati.
Rispondendo a questo strano e direi inopportuno commento, mi accorgo che il signor Innamorati non può essere taggato. La constatazione, confermata anche dall’impossibilità di visualizzarne la pagina, è che ha attivato il blocco del mio profilo. Ohibò.
Se qualcuno non conoscesse come funziona Facebook, informo che se non siete soddisfatti di avere qualcuno tra le vostre amicizie avete due opzioni: potete nascondere la visibilità dei loro post oppure potete togliere loro il contatto. Il blocco di un utente è una funzione che Facebook consiglia per i disturbatori, per chi aggredisce o ci invia messaggi inopportuni. Dato che non ho mai scritto a Innamorati, immagino che temesse che lo facessi dopo il suo commento, quello sì davvero spiacevole, sul mio diario. Come a dire: ti lancio una frecciatina e poi scappo, sia mai che ti salti in mente di rispondermi.
Oltre a questo timore del contraddittorio, attira la mia attenzione la scelta linguistica: tirare in ballo il “distanziamento sociale”, espressione che oggi è legata al diffondersi di una pandemia e che ha un connotato emotivo perciò molto forte, per annunciare – cosa del tutto superflua – la dipartita dalla mia cerchia di contatti, mi pare davvero fuori luogo oltre che volgare.
Sono un po’ inquietata: che cosa avranno mai fatto i consulenti filosofici a questo signore, per adottare tale comportamento?
Torno con la mente a quell’articolo citato in apertura, anche grazie allo stimolo di alcune comuni amicizie (sì, Innamorati non lo sa, ma tra i suoi contatti ci sono molti consulenti filosofici). Vado quindi a ripescarlo: “Il counseling filosofico: alcune domande provocatorie”, State of Mind, 27 febbraio 2017. Un bel titolo, che pare manifestare l’intenzione di porsi degli interrogativi, ma che in realtà traveste da domande molte perentorie affermazioni.
Si riconosce lo stile, diciamo.
Ora qualcuno si chiederà perché sto dando importanza a un comportamento maleducato e a un articolo male argomentato. Beh, semplicemente perché ritengo che sottolineare la distanza tra due modalità diverse di intendere e di praticare il filosofare sia cosa assai opportuna, per evitare fraintendimenti a proposito della professione che svolgo. Come ho scritto, prendo le mosse da qui per allargare il discorso.
Incominciamo col ricordare che la parola filo-sofia, secondo l’indicazione etimologica, significa amare la conoscenza. Chi ama qualcosa va alla sua ricerca, chi ama non possiede. Per questo l’attività socratica è così esemplificativa di ciò che s’intende per “filosofo” e per “filosofare”. Vorrei aggiungere l’importante riflessione di Luce Irigaray, per la quale la filosofia non è solo amore per la saggezza ma anche, in una adesione ancor forse più appropriata all’etimo, “saggezza dell’amore”, intendendo dire che si tratta anche di un’arte della relazione. Temo che Innamorati – anche un poco, mi si permetta l’ironia, in contraddizione con il suo stesso cognome – si allontani da entrambe le etimologie: non solo giudicando le persone senza conoscerle, disattendendo all’arte della relazione, ma anche sentenziando su professioni di cui sa poco o nulla.
Partiamo dall’incipit del suo articolo:
“Personalmente mi sento autorizzato a esprimere un’opinione in materia di counseling filosofico per aver compiuto studi sia di carattere filosofico che psicologico”. Segue una sfilza di titoli, nessuno dei quali indicante una competenza specifica in counseling filosofico.
La dichiarazione netta è che si possa parlare per supposto sapere, senza conoscere l’argomento nella sua specificità e senza confrontarsi né con i testi di riferimento né con i professionisti che se ne occupano.
Per un filosofo non si tratta solo di un tradimento etimologico, naturalmente, ma anche di un’assurdità logica, oltre che di un messaggio grave dato ai lettori: non vi serve sapere che cosa sia la consulenza filosofica, non sono necessari studi specifici, la formazione è inutile (che in effetti è quanto verrà ribadito in tutto l’articolo). Oh, alla faccia dell’amore per la conoscenza.
Ma continuiamo.
“Non è quindi un preconcetto nei confronti della filosofia a spingermi ad avanzare dubbi e obiezioni verso il counseling filosofico”.
Ignoranza di che cosa sia un “preconcetto” o malafade? Fatto sta che sia piuttosto evidente il pre-concetto inziale di Innamorati nei confronti del counseling filosofico, che renderà ogni argomento fondato non più che su delle ipotesi di fantasia. E ahimè, quando è così, quando la premessa è un pre-giudizio, si dimostra anche di avere un bel pre-concetto pure di che cosa sia la filosofia stessa: un’attività che procede, come già rilevato, per presunto sapere.
Questo tipo di concezione del filosofare come “sapere saputo” si oppone nettamente alla socratica attività di ricercadel sapere, che invece è abbracciata dalla consulenza filosofica. Nella prima accezione è sufficiente aver studiato la storia della filosofia per dirsi filosofi, nella seconda invece no, occorre altresì pensare e vivere filosoficamente.
La consulenza filosofica è una professione, inoltre, in cui non solo ci si pone alla ricerca del sapere, ma lo si fa anche in un contesto dialogico, nella relazione viva e incarnata con i singoli individui. Un motivo in più perché sia necessaria una formazione specifica, che ecceda l’accademia. I consulenti filosofici devono avere sicuramente competenza nella storia della filosofia, ma ciò pur essendo necessario, non è sufficiente.
L’articolo di Innamorati continua confermando a ogni passo la filosofia del sapere saputo.
“I casi sono due: o il potenziale fruitore del counseling filosofico è in grado di capire le idee filosofiche che gli verranno comunicate o non lo è”.
Si continua, incredibilmente, a dare per scontato che il consulente filosofico “comunichi delle idee”, offra un sapere. No, Innamorati, noi non offriamo alla gente un sapere già bello che confezionato, non pratichiamo la filosofia come fa lei.
Viene poi da sorridere, quando il nostro autore si chiede: ma la filosofia deve “servire” a qualcosa? Rispondendo poi subito “No!”, orgogliosamente quanto malamente facendo eco alla definizione aristotelica della filosofia “serva di nessuno”.
Beh, diciamo prima di tutto che una filosofia tronfia e pomposa no, non serve a niente. Il suo supposto sapere non è utile a nessuno, in effetti. Come Innamorati stesso affermerà, egli stesso è “utile” o “efficace” solo in quanto psicoterapeuta. Come filosofo, proprio no.
Tutto l’articolo appiattisce il significato di “utilità” così come quello di “cura” su un unico termine: Terapia. Si dimentica, pare, che esistono anche gli insegnanti e gli educatori, coloro cioè che non si prendono “cura” delle persone in senso terapeutico. A meno di non considerarle professioni inutili, forse Innamorati dovrebbe rivedere un poco la sua argomentazione. Certo, un professore di storia della filosofia è utile in un senso ben diverso da una utilità “tecnica”. E Aristotele aveva ragione: la filosofia non ci serve allo stesso modo di come ci servono le “tecniche”. In questo senso essa non è una terapia e si differenzia certamente dalla psico-terapia (per quanto c’è chi, come Umberto Galimberti, sostiene, a mio parere a ragione, che neppure la psicoterapia dovrebbe considerare se stessa come una mera techne).
Visto che però qui parliamo non di insegnamento ma di consulenza filosofica, veniamo pure a noi.
Non essendo un’attività “terapeutica”, non ha quindi l’intenzione di rilevare sintomi e diagnosticare patologie, con l’obiettivo poi di trattarle con una psico-terapia o con dei farmaci. È un prendersi cura diverso che più che con la therapeia, ha a che fare con la epimeleia, ovvero con quel prendersi cura delle possibilità dell’essere per farlo fiorire, per citare la bella definizione di Luigina Mortari (“La filosofia della cura”).
I consulenti filosofici non diagnosticano né trattano patologie, bensì incontrano esseri umani. Se una persona che ci chiede sostegno avesse in corso una patologia la indirizziamo verso un altro specialista e, se se ne vede l’opportunità, lavoriamo in equipe con altri professionisti (medici, psicoterapeuti, psichiatri) per il suo ben-essere, secondo la specificità dei nostri strumenti.
A Innamorati sembrerà probabilmente incredibile, ma ci sono psicoterapeuti che lavorano in rete con noi, che riconoscono il nostro ruolo e lo apprezzano. Se i pregiudizi cadono, infatti, è possibile collaborare proficuamente proprio a vantaggio del consultante/paziente.
Chi collabora con noi lo sa che non comunichiamo idee alla gente, non propiniamo teorie e nemmeno passiamo il tempo a leggere testi, come il solito articoletto ipotizza. Leggere un piccolo scritto con il consultante o consigliargli un libro sono cose possibili, ma non rappresentano la nostra pratica tanto quanto il disegno di un albero fatto fare a un paziente non rappresenta la pratica clinica di un terapeuta: sono passaggi, opzionali, di una relazione ben più ampia e articolata. [Il paragone è solo esemplificativo, poiché chiaramente un libro non è utilizzato dai consulenti filosofici come un disegno o un test da parte del terapeuta, non ha fini né diagnostici né terapeutici].
Il compito di un consulente filosofico è fare una “filosofia in rapporto” (cfr. G. Achenbach), ovvero praticare la ricerca del sapere insieme al suo consultante, a partire da problemi, dubbi, domande portati dal consultante stesso e che hanno una rilevanza per la sua vita. Non ogni malessere è patologico e molto spesso soffriamo per il carattere angusto e rigido delle nostre idee, che non ci permettono di affrontare adeguatamente una situazione dilemmatica, un conflitto, la perdita di un amore o di una amicizia, una circostanza lavorativa o un lutto. La fragilità della nostra esistenza di esseri umani ci mette di per se stessa di fronte all’esperienza del dolore, senza che questo si traduca per forza di cose in una patologia.
Se allora il consulente filosofico non dà consigli e non fa lezioni di filosofia che cosa offre al consultante? Semplicemente lo supporta nel pensare alla propria esistenza in modo meno legato all’abitudine e al pre-giudizio, sviluppando capacità argomentative, zetetiche e logiche. Senza indottrinamenti e senza fare ricorso a “tecniche” terapeutiche.
Ciò significa aprire il discorso filosofico all’imprevedibilità della relazione dialogica con altri. Non c’è spazio per le teorie già confezionate e per il presunto sapere: nella relazione filosofica il dialogo è sempre in fieri.
Filosofare in relazione con un altro, che vive delle difficoltà, è certamente una responsabilità. Per questo motivo non presumiamo ci basti avere dimestichezza con gli strumenti della filosofia e sappiamo bene che si tratta di entrare in rapporto con l’interlocutore in modo competente. Ciò significa formarsi e intendere la filosofia anche come saggezza dell’amore, come sapere che si sviluppa nella relazione e che ha a cuore la relazione. Gli strumenti del “counseling”, una formazione interdisciplinare che comprenda anche elementi di psicologia e di nosologia psichiatrica, i tirocini, le supervisioni sono per questo fondamentali come propedeutica e sostegno al filosofare in rapporto.
A proposito: il counseling non nasce psicologico, bensì viene acquisito dagli psicologi dall’ambito dell’orientamento (cfr. Frank Parsons). Il counseling non nasce con Rogers, come molti credono, sebbene sia con Rogers che la psicologia (umanistica) ne riconosce tutta l’importanza. Rispetto a questi argomenti consiglierei a chi non ne ha conoscenza di informarsi. Basta perfino Wikipedia, per incominciare.
Veniamo ora alla critica sulla incapacità diagnostica del consulente filosofico. Come fa un counselor a rendersi conto di avere di fronte un paziente psicotico? Se non lo sa fare non rischia di fare danni?
Nessun counselor ha la competenza per fare diagnosi, è vero: tuttavia, sappiamo comprendere quando è opportuno interpellare qualcuno che ne formuli una. Almeno lo sa chi è adeguatamente formato.
Sarebbe per altro opportuno che anche gli psicologi apprendessero nei propri studi degli elementi di filosofia e di counseling filosofico o bioetico, anche solo per sapere quando si trovano di fronte a un problema etico, bioetico, esistenziale, in generale filosofico, e poter inviare il paziente a chi è più competente in proposito. Trattare terapeuticamente certi problemi potrebbe recare parecchi danni a chi chiede un aiuto, ne possiamo essere certi.
Se certi psicologi smettessero di fare la guerra al counseling (considerando anche che sono molti gli psicologi formatori dei counselor), vedrebbero bene che l’utente non si tutela squalificando una professione ma esercitando bene la propria e al massimo poi limitandosi a stimolare gli altri professionisti a qualificarsi in modo sempre migliore e preciso. Credere di disporre dell’unico sapere “utile” e di avere il monopolio sulla “cura”, certe volte non fa vedere più in là del proprio naso.
In tempo di pandemia, specialmente, appare in modo ancora più chiaro che chi si occupa di relazioni d’aiuto dovrebbe fare rete, nell’interesse di tutti. Con Pragma, abbiamo attivato un servizio di counseling filosofico gratuito per sostenere chi è in difficoltà, così come hanno fatto molte altre associazioni di consulenza filosofica. Siamo tutti impegnati, psicologi e counselor, nel sostenere le persone nei momenti di difficoltà e nel rendere questo mondo un posto più accogliente. Anziché farci la guerra dovremmo imparare a prenderci cura globalmente delle persone, lavorando in sinergia.
Certo questo non potrà mai accadere se c’è chi dà agli altri professionisti dei ciarlatani, paragonandoli a maghi e astrologi. Temendo infatti che i consulenti sottraggano ai terapeuti una fetta di mercato, l’articolo di Innamorati afferma: “il mercato non ha cancellato né maghi, né astrologi ma questo non mi pare una prova a favore della magia o dell’astrologia”.
È una realtà, certo, che i consulenti filosofici non producano prove di “efficacia terapeutica” del proprio lavoro, come ci bacchetta Innamorati. Ugualmente, sono stati condotti importanti studi, come quello del Prof. José Barrientos Rastrojo, presso l’Università di Siviglia (in collaborazione con altri prestigiosi atenei), che ha raccolto dati preziosi, con analisi statistica, sui risultati della consulenza filosofica svolta nelle carceri di numerosi paesi, con i detenuti, all’interno di un progetto internazionale che speriamo approderà anche in Italia. Gli studi empirici saranno sempre di più via via che la professione si diffonde, ne stiano certi i detrattori.
Oggi è difficile vivere del solo lavoro di consulente filosofico/a, occorre impegno, capacità autoimprenditoriale, pazienza. Spesso prima di farne l’occupazione principale è necessaria gavetta e inoltre non di rado accade di doversi impegnare su più fronti lavorativi. Non solo per le difficoltà intrinseche al mondo del lavoro in Italia e non solo perché si tratta di un approccio poco conosciuto, ma anche perché la sua diffusione e il suo pieno riconoscimento sono continuamente ostacolati dai “filosofi del presunto sapere” e inoltre da chi cerca indefessamente di escludere dal terreno della cura chiunque non adotti una prospettiva terapeutica.
Innamorati conclude il suo articolo invitando i consulenti filosofici alla “coscienza”, cercando di scoraggiarli dall’illudere i laureati in filosofia di avere una nuova strada professionale da percorrere.
“A mio avviso, coloro che alimentano le speranze dei laureati in filosofia proponendo corsi per diventare counselor dovrebbero fare i conti con la loro coscienza (posto che questo termine abbia ancora un significato filosofico)”.
Ebbene, mi rivolgo quindi in conclusione a tutti i neolaureati in filosofia, curiosi di formarsi in consulenza filosofica e di adottare un approccio alla filosofia come pratica di vita: scegliete bene i vostri mentori e fate attenzione alla qualità della vostra formazione. Soprattutto, diffidate di chi sentenzia per presunto sapere, perché il più delle volte vi dirà di seguire la sua Verità senza alcun rispetto per la vostra propensione e per i vostri talenti.
Per saperne di più: https://www.stateofmind.it/2017/02/counseling-filosofico/
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