Sono molte le prospettive attraverso le quali analizzare il fenomeno del cosiddetto “complottismo”, che spaziano dalla politica, all’economia, all’informazione, alla psicologia. Quello che tuttavia mi preme affrontare in questo articolo è il problema del complottismo quanto alla filosofia. In particolare, è necessario chiedersi se le teorie complottiste abbiano o meno qualcosa in comune con le teorie filosofiche.
Secondo Peter Pomerantsev, autore del libro Questa non è propaganda, pare proprio di no. Infatti, si tratterebbe più che altro di sostituire alla razionalità di una teoria logica e coerente, una visione del mondo totalmente fantasiosa e irrazionale. Secondo Pomerantsev, i complottisti rifuggono dalla dura realtà dei fatti, concedendosi a costruzioni mentali improbabili pur di trovare sollievo:
“I fatti, in fondo, non sono sempre le cose più piacevoli; possono rammentarci, come avevo scoperto con la mia maestra, la signora Stern, il nostro posto e i nostri limiti, i nostri fallimenti e, in ultima analisi, la nostra caducità. Si prova una sorta di gioia adolescenziale nello sgravarsi di questi pesi, nel “mandare a quel paese” la triste realtà. La soddisfazione offerta da un Putin o da un Trump dipende proprio da tale liberazione dai vincoli”( 2020, ¶359)
Insomma, secondo questo autore, i politici che ostentano il gesto di rifiutare i fatti, che ratificano il piacere di sparare assurdità, che indulgono a una completa, anarchica liberazione dalla coerenza, dalla triste realtà, proprio per questo diventano attraenti.
“Che un tal numero di americani abbia potuto votare per qualcuno come Donald Trump, un uomo che tiene in così bassa considerazione la ragionevolezza e la logica, i cui tanti messaggi contraddittori non compongono un insieme coerente, è stato in parte possibile perché gli elettori avevano la sensazione di non essere coinvolti nella visione di alcun futuro fondato su basi fattuali. Era anzi la stessa incoerenza ad attrarre, come se autorizzasse a esternare tutta la follia che le persone sentivano dentro di sé. La gioia dispensata da Trump avallando il gusto di sparare stronzate è la gioia della pura emozione, spesso rabbiosa” (Ivi, ¶365).
Devo dire che, forse per la mia poca simpatia per Putin o Trump, questa descrizione del complottismo inizialmente mi è sembrata “simpaticamente allettante”. D’altro canto, credo che invece i loro sostenitori non si trovino affatto d’accordo, né che abbiano trovato granché di cui ridere. Probabilmente, a ragione.
Se infatti consideriamo come nasca una “teoria del complotto”, essa non deriva tanto da una necessità di approdare a un mondo fantastico, ma dalla speranza di dare ordine alla confusione. I complottismi derivano sempre dalla constatazione di alcune incongruenze nella realtà quotidiana e in particolare nella sua rappresentazione mediatica, che creano la sensazione che “qualcosa non quadri”. L’esigenza del complottista è quindi di un’esigenza di chiarezza e un bisogno di comprendere meglio il mondo e le modalità attraverso le quali esso viene narrato. Possiamo dire che il complottismo nasca “filosofico”? Sì, credo si possa anche dire così.
La realtà è davvero spesso incongruente e imperfetta e certamente non possiamo negare che la sua trasposizione in forma di “notizia” possa contenere altrettanta e anzi ancor più grande e lacunosa imperfezione. Le domande circa il senso da attribuire a quanto ci circonda e alla logica di alcune narrazioni, sono quindi del tutto legittime. Inoltre, è proprio del filosofo estendere il dubbio a tutto quanto apparentemente appaia più ovvio e scontato.
Il filosofo francese Cartesio segnò l’inizio dell’Illuminismo con le Meditationes de Prima Philosophia del 1641, in cui decideva di respingere ogni saggezza ricevuta, dubitare di tutto quanto gli era possibile e ricostruire la sua comprensione del mondo da zero, confidando solo nelle proprie facoltà critiche. Mezzo secolo più tardi, il filosofo inglese John Locke scriveva: “Faremmo maggiori progressi nella scoperta della conoscenza razionale e contemplativa se la cercassimo alla fonte […] se per cercarla facessimo uso del nostro pensiero piuttosto che di quello altrui. Credo infatti che possiamo sperare con altrettanta ragione di vedere con gli occhi altrui quanto di conoscere con l’intelletto altrui”. Un secolo dopo, quando il filosofo tedesco Immanuel Kant fu invitato a rispondere alla domanda “Che cosa è l’Illuminismo?”, rispondeva: “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo”.
Come non notare una certa affinità tra le nobili aspirazioni dei pensatori dell’Illuminismo e le esortazioni dei complottisti del passato e del presente ad “attaccare l’ortodossia” e a “difendere la libertà individuale di espressione e di credo”. Kant esortava i suoi lettori al coraggio di servirsi “della propria intelligenza”, procedendo poi a ridicolizzare la pigrizia intellettuale e l’indolenza di “animali domestici” non pensanti, che sprofondano nell’ignoranza autoimposta, confidando in ciò che si legge sui libri e permettendo ad altri di pensare in vece loro: tutto questo secoli prima che venisse in voga la frase “Sveglia, pecoroni!”.
Come scrivono Jane e Fleming, “lungi dal rappresentare una rottura dal razionalismo, il pensiero del complotto è in realtà coerente in modo imbarazzante” con gli ideali illuministi (Brotherton, 2017, ¶ 412-13).
Dovremmo quindi ammettere che ogni complottista sia un po’ filosofo o addirittura che ogni filosofo sia un po’ complottista?
Se ci fermiamo alla nascita delle teorie del complotto, pare sia proprio così: ogni complottista è un po’ filosofo. E se d’altra parte hanno ragione quanti affermano che più siamo abituati a cercare di colmare le lacune del nostro intelletto, più abbiamo la tendenza a sospendere il giudizio e perfino ad abbracciare le teorie del complotto, allora è parzialmente vera anche la seconda affermazione, che i filosofi sono tendenzialmente un poco complottisti, nel senso che riconoscono che la verità sfugge e si nasconde in un luogo lontano e per lo più inaccessibile, se non – forse – agli eletti.
Nonostante queste premesse, occorre tuttavia rilevare che le teorie del complotto non si limitano a scorgere delle incongruenze nella realtà e/o nella sua narrazione mediatica o politica e a porsi qualche lecita domanda. Successivamente, si procede a una capillare ricerca e analisi di “strane coincidenze” e alla loro “sistematizzazione” in un nuovo quadro interpretativo, alternativo alla “narrazione dominante” (o mainstream, come oggi si ama dire). In particolare, è possibile notare la tendenza a trattare le coincidenze rilevate come se fossero delle “cause”.
Lo psicologo Rob Brotherton sottolinea come gli esseri umani, dinanzi a una realtà incoerente, tentino ricostruzioni “di senso” in cui facilmente dalle coincidenze si scivola verso le cause.
“La realtà trabocca di punti che vanno uniti, e il nostro cervello, per dare loro un senso, deve essere pronto a capire rapidamente come vanno collegati tra loro. Nel suo sforzo incessante di trovare un significato nel caos che ci circonda, tuttavia, il nostro cervello può anche originare delle seducenti illusioni. A volte, infatti, i nostri occhi ci ingannano, e talvolta anche la mente ci gioca brutti scherzi” (Ivi, ¶ 523)
In particolare egli crede che “siamo tutti un po’ babbei alla ricerca di una buona coincidenza”, che rimangono impressionati quando sognano qualcosa che il giorno dopo si avvera, o quando ricevono da qualcuno una telefonata inaspettata pochi momenti dopo che il suo nome ci è passato per la mente. Anche la coincidenza più banale può sembrarci incredibile quando ce la troviamo di fronte in maniera così diretta.
Una “coincidenza” è tecnicamente una cosa che sembra coincidere con un’altra. Di coincidenze siamo letteralmente circondati. “Diciamo qualcosa di poco carino, per esempio, e nostra moglie ne resta sconvolta; un contadino sparge letame sul suo campo e si gode un bel raccolto abbondante; vostro nonno fumava due pacchetti al giorno ed è vissuto fino a cent’anni; una società assume un nuovo direttore generale e i suoi utili trimestrali salgono; una squadra di football assume un nuovo coach e ha una stagione pessima” (Ivi, ¶551). Le coincidenze di per sé stesse ci lasciano estremamente insoddisfatti, poiché sentiamo che il quadro dinanzi a noi non è completo affinché sia possibile apprendere qualcosa di utile riguardo al mondo. Potenzialmente, quando rileviamo un qualche collegamento tra due eventi, abbiamo portato alla luce un indizio su come funziona la realtà. Se una cosa succede, è probabile che succeda l’altra, ovvero il rapporto potrebbe essere causale. L’individuazione delle relazioni causali riveste notevole importanza, poiché comprendere che cosa provoca qualcos’altro ci permette di prevedere e controllare il mondo intorno a noi. Così una coincidenza che non siamo in grado di spiegare comincia a indugiare nella nostra mente spingendoci a completare il quadro, per individuarne la causa.
Il problema è che alcune coincidenze sono effettivamente dense di significato, mentre altre assai meno.
“Osservazioni prive di tatto fanno spesso irritare un coniuge, così come il letame dà nutrimento alle coltivazioni. Sarebbe tuttavia un errore supporre che le sigarette siano ottime per la salute solo perché conoscete un centenario che ne fumava una dopo l’altra. Può darsi che il direttore generale sia un genio e l’allenatore sia invece un fallimento; può darsi che venga attribuito loro il merito oppure la colpa di qualcosa che sarebbe accaduto indipendentemente. Il software del rilevamento dei modelli, integrato nel nostro cervello, è squisitamente sensibile, ma a sorvegliarne attività non vi è integrato alcun programma per il controllo della qualità. Per sapere se una cosa ne provochi veramente un’altra occorrono statistiche ed esperimenti, ma il metodo scientifico non è connaturato in noi. Il nostro cervello si è evoluto per interpretare i modelli con rapidità e determinazione, il che significa considerare ogni possibile connessione come significativa per default” (Ivi, ¶553).
Quando il complottismo sfocia in una rilevazione delle coincidenze e in un loro arbitrario collegamento come se si trattasse di cause che determinano certe situazioni e certi fenomeni, decisamente esso si allontana tanto dal metodo scientifico quanto dal metodo logico-argomentativo rigoroso. Alcune teorie del complotto sono una sorta di lunghi trattati, elaborati, onnicomprensivi e dotati di un fitto apparato di note a piè pagina, che comunque rivelano a un occhio attento numerose lacune e anomalie, mentre altre sono formulate sotto forma di semplici intuizioni che avvalorano un sospetto, espresse secondo la tattica del solo fare domande: “basta farsi qualche domanda”, si sente spesso affermare ai complottisti. Anziché postulare una narrazione coerente, il teorico complottista si limita a porre delle domande che sembrano sollevare problemi rispetto alla “storia ufficiale”.
Se poi una (pseudo)teoria complottista inizia a essere abbracciata come assoluta verità, per il fatto molto semplice di contrapporsi alla verità raccontata “dai più”, ecco che l’allontanamento da un atteggiamento filosofico è definitiva: non più il “so di non sapere” socratico, ma “ecco a voi la verità, svegliatevi!” dei nuovi profeti del web, solitamente condito con tanti altri slogan mirati a sostenere le proprie tesi come le uniche corrette e a tacciare le altre storie come “il Male Oscuro”.
È così che il buon proposito iniziale del complottista-“filosofo” di interrogarsi sulla realtà, si tramuta presto in una forma di superstizione e di fideismo. Del resto, come afferma Brotherton, sulla base di precisi esperimenti psicologici e studi statistici, i teorici del complotto manifestano, in generale, tendenze piuttosto superstiziose.
“Quanto più qualcuno abbraccia le teorie del complotto, tanto più è probabile che diffidi anche di gatti neri e specchi rotti e tenda a non passare sotto una scala a pioli. In secondo luogo, sono più propensi a sospettare che ci sia un grano di verità in varie leggende metropolitane come la vecchia storia su uomini d’affari che si svegliano in una vasca da bagno piena di ghiaccio e senza più un rene. I teorici del complotto non solo sono più propensi ad accettare come veritiere pseudoscienze tipo astrologia e medicina alternativa, ma hanno più probabilità di respingere la scienza ufficiale e le sue innovazioni, come i vaccini e gli alimenti geneticamente modificati. Numerosi studi inoltre (supportano l’idea che) chi crede alle teorie del complotto è probabile che sia attratto più di altri dallo spiritualismo New Age, in cui includiamo ogni genere di progetti metafisici, come karma, reincarnazione, proiezione astrale, energia di guarigione e l’idea che l’intero cosmo è una realtà vivente, un continuum che non conosce interruzioni” (Ivi, ¶ 401).
Possiamo affermare che il complottismo infine non esprime un’autentica disposizione alla ricerca della verità né infine si traduce in una filosofia, bensì si declina come un atteggiamento mentale e pratico anti-filosofico e anche piuttosto pericoloso. Non basta mettere in dubbio più cose possibili per dirsi filosofi, occorre anche disporsi in un certo modo nel far fronte a tale dubbio radicale, che fa appello al pensiero critico e argomentativo, che attenziona i bias ed evita le scorciatoie mentali, che si tiene lontano dalle superstizioni. Inoltre, si tratta, a mio avviso, di assumersi anche una ben precisa responsabilità di carattere etico e sociale.
“I teorici del complotto hanno ragione su una cosa”, ha scritto il giornalista Chip Berlet, “nel mondo esistono diseguaglianze di potere e di privilegi – e minacce per il mondo stesso – a cui si deve porre rimedio”. Eppure, sostiene Berlet, il complottismo è quasi sempre una distrazione dal duro lavoro delle indagini investigative e dai cambiamenti sociali. “Le teorie del complotto puntano i riflettori su parecchie questioni indubbiamente affascinanti, ma raramente fanno luce su riposte significative”. La visione del mondo complottista dipinge il mondo in bianco e nero, con un ritratto caricaturale di intrepidi teorici del complotto in lotta contro monolitici complotti. La realtà, invece, è fatta di sfumature di grigio. Facendo un capro espiatorio di cospiratori immaginari, le teorie del complotto distolgono l’attenzione da problemi reali e potenzialmente risolvibili. C’è quindi una certa inclinazione dei complottismi a distogliere dalle soluzioni pratiche e spesso, ancor peggio, a precipitare gli eventi verso scenari peggiori.
Le teorie del complotto sono sempre esistite, non si tratta di un fenomeno nuovo e, molto spesso, i loro effetti sono stati assai nefasti. Nei primi decenni del XX secolo, le teorie complottiste più diffuse riguardavano i tentativi di sovvertire la democrazia da parte dell’alta finanza. Dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta, molti dei presunti complotti erano attribuiti ai comunisti. Negli ultimi cinquant’anni, i sospetti sono stati dirottati verso il governo americano, in particolare le sue varie agenzie di intelligence.
Due esempi in particolare di complottismo possono darci un’idea chiara dei rischi cui esso può condurre: quello relativo alle vaccinazioni contro il morbillo e quello antisemita su cui si fondò la propaganda nazista di Hitler.
Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra il 2000 e il 2013 la vaccinazione contro il morbillo ha salvato più di quindici milioni di vite in tutto il mondo. Purtroppo, dalla fine degli anni novanta, il vaccino MPR è stato però al centro di accesi dibattiti e timori, spesso con sfumature complottiste. Nel 1998, un medico di nome Andrew Wakefield, insieme con un team di colleghi, pubblicò uno studio che accese un feroce attacco al vaccino del morbillo. Nell’articolo, pubblicato da una rivista medica di tutto rispetto a “The Lancet”, Wakefield e colleghi affermavano di aver scoperto il virus del morbillo nell’intestino di alcuni bambini affetti da autismo. Lo studio ipotizzava che l’inoculazione del vaccino poteva avere un ruolo nel causare il disturbo autistico, ma sottolineava che i risultati non erano sufficienti a dimostrare una diretta correlazione. Nonostante questo, Wakefield non aveva esitato a portare i risultati ai media (Ivi, ¶143). Nel 2004 emerse che l’intero dibattito sulla correlazione tra vaccini e autismo si reggeva su una menzogna. Inoltre, il giornalista investigativo Brian Deer scoprì che Wakefield, prima di iniziare il suo studio, era stato coinvolto nella richiesta di un brevetto per un vaccino alternativo, apparentemente più sicuro di quello trivalente (Ivi, ¶146). Ormai però il danno era fatto.
Per diversi anni, all’idea che il vaccino MPR provocasse l’autismo i media britannici dedicarono più servizi che a qualsiasi altra storia di carattere scientifico. Quando gli articoli allarmisti raggiunsero un picco tra il 2001 e il 2003, la somministrazione del vaccino piombò all’80 per cento. Alcune regioni della Gran Bretagna, in particolare, alcuni quartieri di Londra, videro drasticamente abbassarsi i livelli di vaccinazione. Il brusco calo fece subito comparire focolai delle malattie che il vaccino scongiurava, in particolare del morbillo, a causa della sua virulenza contagiosa. Il primo focolaio si registrò a Dublino nel 2000, dove i livelli di vaccinazione erano già inferiori a quelli del Regno Unito. Furono segnalati quasi 600 casi di morbillo; più di un centinaio di bambini furono ricoverati in ospedale con gravi complicazioni; tre morirono. Nel 2006 morì in Inghilterra un ragazzo di tredici anni – il primo decesso per morbillo nel paese dal 1994. Nel 2008, per la prima volta in quattordici anni, il morbillo fu dichiarato endemico nel Regno Unito. Nel 2012 si registrarono oltre 2000 casi in Inghilterra e Galles, per lo più di bambini e adolescenti i cui genitori avevano rifiutato di somministrare l ‘MPR negli anni precedenti. Nel 2013, un altro focolaio scoppiò in Galles con più di un migliaio di contagiati, ottantotto dei quali ricoverati e uno deceduto, un uomo di venticinque anni.
Il testo di Brotherton “Menti sospettose”, riporta numerosi casi di complottismo relativo alle vaccinazioni, tutti con conseguenze disastrose. In alcune regioni del Pakistan, i leader religiosi locali hanno denunciato le vaccinazioni come uno stratagemma americano per sterilizzare i musulmani e secondo la BBC, dal 2012 sono stati assassinati in Pakistan più di sessanta operatori sanitari impegnati nella vaccinazione antipolio, oppure i loro autisti o le loro guardie (Ivi, ¶168).
Per quanto riguarda l’antisemitismo, vale la pena ricordare il famoso caso dei cosiddetti Protocolli dei Savi di Sion, un clamoroso falso storico.
I protocolli dei Savi di Sion sono un pamphlet di un’ottantina di pagine. Esso conteneva stupefacenti rivelazioni in merito a un complotto di proporzioni apocalittiche, risalente a eoni passati e prossimo a giungere spaventosamente al suo completamento finale. Non si trattava di una mera denuncia, rappezzata alla meglio da qualche esterno, bensì di una confessione dettata dagli stessi congiurati: il verbale di una riunione segreta del Supremo consiglio ebraico mondiale, appunto i Savi di Sion. Gli appunti della riunione erano destinati ovviamente ed esclusivamente a occhi ebraici, ma chissà come una copia era apparsa in stampa nella Russia del XX secolo. A quanto pare, la riunione era stata origliata da una spia russa, oppure, a seconda delle versioni, una trascrizione era stata sequestrata a uno dei partecipanti, oppure rubacchiata da qualche segreto archivio sionista, o addirittura sottratta dall’amante a uno dei Savi, impenitente donnaiolo.
I protocolli costituiscono una preziosa guida su come sovvertire la democrazia e accelerarne la fine. In tutto il mondo, secondo le istruzioni dei Protocolli, gli ebrei sarebbero pronti a seminari i semi della discordia, favorendo la guerra tra razze, classi sociali e nazioni. Dovranno controllare i mezzi d’informazione, manipolare la politica e minare la religione, sostituendo a essa il materialismo più spietato. E tutto questo se le cose prenderanno il verso giusto. Qualora si rendessero necessarie misure più drastiche, si diffonderanno allora pestilenze e carestie, si causeranno recessioni economiche, verranno assassinati capi di Stato e inizieranno futili guerre. Una volta che le redini della società saranno deboli, allora gli ebrei faranno irruzione, assumendo i pieni poteri. Sotto il governo dei Savi, i cittadini leali si spieranno l’un l’altro e i tiranni eserciteranno il controllo assoluto su ogni aspetto della vita civile, stroncando all’istante e senza pietà ogni forma di dissenso. Chiunque agirà, parlerà o anche solo penserà qualcosa di contrario al regime ebraico verrà passato per le armi dopo uno sbrigativo processo.
Il manifesto programmatico di Hitler, il Mein Kampf, del 1924, dedicava lunghe pagine alla realtà del complotto, sebbene il fatto che i Protocolli fossero un falso fosse stato già ampiamente dimostrato tra il 1920 e il 1921 da puntuali ricerche giornalistiche e storiografiche.
Una mattina del giugno 1922, Walther Rathenau, ministro tedesco degli Affari esteri, lasciò la sua casa alla periferia di Berlino per dirigersi verso il ministero, nel cuore della città, con la sua autovettura. Un’auto di colore grigio scuro sbucò da una stradina laterale e gli bloccò la strada. Due giovani in lunghi cappotti di pelle si sporsero dalla macchina. Uno colpì Rathenau con un fucile mitragliatore, sparando cinque volte, mentre l’altro lanciò una bomba a mano. Un terzo uomo, l’autista degli attentatori, diede a tutto gas allontanando gli assassini proprio mentre l’esplosione sollevava da terra l’auto di Rathenau. Il ministro morì dissanguato sulla scena del crimine.
I due assassini furono rintracciati tre settimane più tardi. Il killer con il fucile mitragliatore, uno studente di ventitré anni di nome Erwin Kern, rimase ucciso in una sparatoria con la polizia. Hermann Fischer, il complice che aveva lanciato la granata, preferì il suicidio alla cattura. In quel momento, l’autista del commando, il ventunenne Ernst Techow, era già nelle mani della polizia. La sua famiglia lo aveva convinto a costituirsi pochi giorni dopo l’attentato. Techow fu processato per direttissima come complice di un omicidio, e sul banco dei testimoni rilasciò una dichiarazione sorprendente: lui ei suoi complici, riferì Techow, avevano assassinato Rathenau perché era uno dei Savi di Sion.
Walther Rathenau era stato nominato ministro degli Affari esteri solo sei mesi prima del suo assassinio. All’epoca, vi era un diffuso malcontento verso il nuovo e fragile governo di Weimar, ma Rathenau non era solo politicamente inviso ai nazionalisti tedeschi: era anche ebreo. Era subito diventato bersaglio delle critiche corrosive della destra, con insulti antisemiti e minacce di morte. Le voci di un suo coinvolgimento nel complotto giudaico-comunista mondiale, tuttavia, nascevano da una frase di un suo saggio, scritto anni prima: “Trecento uomini, che non si conoscono l’altro, guidano i destini economici del continente e cercano i loro successori tra i loro seguaci”. Con quelle parole, Rathenau intendeva criticare le consuetudini dell’oligarchia economica del paese, comuni a quel tempo. Per qualche editore tedesco che aveva pubblicato i Protocolli, invece, quando Rathenau parlava di uomini, quello che intendeva realmente dire era ebrei. Non si trattava di un’accusa contro un mondo degli affari che agiva nell’ombra, dicevano, ma un chiaro riferimento in codice ai tanto temuti Savi di Sion.
Poco dopo essere divenuto cancelliere della Germania nel 1933, Adolf Hitler fece erigere un monumento agli assassini di Rathenau nel cimitero dove erano sepolti: una grande lapide recava un’epigrafe che celebrava i due attentatori come “avanguardia combattente”, in nome della causa nazista. Nel corso di una cerimonia di commemorazione tenuta nel luogo in cui i due erano morti, i leader nazisti si profusero in encomi ardenti. Ernst Röhm, comandante della Sturmabteilung (SA), il corpo paramilitare del Partito nazista, lodò “il glorioso gesto” degli assassini. Heinrich Himmler affermò che “senza l’atto di coraggio di questi due combattenti, oggi la Germania si troverebbe a vivere sotto un regime bolscevico”. Nel frattempo, studenti universitari di tutta la Germania, assistiti dalleSAin camicia bruna, organizzavano grandi roghi di libri, in cui le opere di Rathenau erano tra i molti volumi gettati alle fiamme. Sull’Opernplatz (Bebelplatz), quarantamila persone si radunarono per sentire il ministro della Propaganda Joseph Goebbels dichiarare: “L’era dell’intellettualismo ebraico estremo è ormai alla fine”.
Nei Protocolli, “Hitler sentì il richiamo di uno spirito affine al suo”, ha scritto lo storico Norman Cohn, “e rispose ad esso con tutto il suo essere”. La prima traduzione in tedesco dei Protocolli era apparsa nel 1920, proprio mentre Hitler stava intraprendendo la sua carriera politica. Iniziò a citare i Protocolli già in alcuni discorsi del 1921, lo stesso anno in cui la loro montatura era stata completamente smascherata.8 In quei primi anni, ricorda Cohn, Hitler conservava sulla scrivania una grande fotografia di Henry Ford, il più famoso sostenitore dell’autenticità dei Protocolli negli Stati Uniti, e amava riferirsi a lui come all’ “eroico americano Heinrich Ford”.
Nel Mein Kampf, del 1924, Hitler si profondeva in lodi sui Protocolli: “Fino a che punto tutta l’esistenza del popolo [ebraico] si basi su una continua menzogna […] lo si vede in modo incomparabile e inconfutabile nei Protocolli dei Savi di Sion”, scriveva Hitler. Egli respingeva le accuse che denunciavano il pamphlet come un falso, ritenendole una mera propaganda ebraica, nonché testimonianza, in realtà, che le informazioni fornite dai Protocolli, dopotutto, erano vere. Facendo eco a Henry Ford, e a molti altri intelligentoni del tempo, Hitler sosteneva che “la miglior critica nei loro confronti è la realtà stessa. Chiunque esamini lo sviluppo storico degli ultimi cento anni dal punto di vista di questo libro, capirà immediatamente il clamore degli ebrei sulla stampa”. Non serve un bel niente sapere “quale cervello ebraico abbia fatto queste rivelazioni”, proseguiva. “Quel che conta è che esse scoprono, con esattezza veramente impressionante, la natura e l’attività del popolo ebraico, esponendone l’intima logica e gli scopi finali”. Una volta che il popolo tedesco avrà sufficiente familiarità con le rivelazioni del libro, concluderà, “la minaccia ebraica potrà essere considerata già vinta”.
Meno di dieci anni dopo, i nazisti avevano assunto il controllo della Germania e, ben presto, avrebbero aggiunto i Protocolli al programma di studi delle scuole nazionali. Una pubblicazione ufficiale del Partito nazista, edita nel 1933, consigliava ai lettori quanto segue: “È dovere di ogni cittadino tedesco studiare le terrificanti confessioni degli Anziani di Sion, e metterle a confronto con la sconfinata miseria del nostro popolo, e poi trarre le necessarie conclusioni” (¶118-119).
Credo che questi esempi siano sufficienti a mostrare la pericolosità delle teorie complottiste che, al netto della loro apparente e illusoria descrizione della realtà nascosta dal Velo di Maya, sono sempre state foriere di ingiustizie e violenze.
Ogni filosofo nella propria attività dovrebbe tenere conto di tre fondamentali elementi prima di aderire a qualunque teoria del complotto: l’umana tendenza a trovare cause dove sono solo coincidenze, la necessità di un pensiero rigorosamente logico-argomentativo a suffragio delle proprie idee e la memoria storica.
Non c’è filosofia né azione eticamente fondata laddove ci sia disprezzo per la logica e la ragione e assenza di consapevolezza circa ciò che è stato, affinché non abbia a ripetersi. In questo senso personalmente credo si debba optare per un aut-aut: o filosofo o complottista. Perché se è vero che tutti noi possiamo coltivare dei sospetti e intravvedere degli intrighi, solo chi non ha una minima idea di che cosa significhi l’autentica ricerca del vero né di cosa s’intenda per responsabilità etico-sociale, può abbracciare con enfasi le pseudo-teorie del complotto, prive di prove, di logica e infine violente e profondamente antidemocratiche.
Oggi dobbiamo fare i conti con QAnon, teoria del complotto di estrema destra che sostiene l’esigenza di “risvegliare” le persone tenute dormienti dal Deep State e rese incapaci di comprendere l’occulta trama di potere che regge il mondo. Le persone “risvegliate” attivamente impegnate nella promozione di QAnon sono definite patriots, “patrioti”. Il termine Anon è uno slang per riferirsi a un utente anonimo di Internet che posta su forum in linea. I seguaci di QAnon si definiscono Anons e si pongono l’obiettivo di “fare ricerche” a partire dagli indizi (drop) rivelati da Q, divulgare informazioni premurosamente classificate, “risvegliare” altre persone. Il numero di aderenti a QAnon è sconosciuto, ma oltre agli Stati Uniti la teoria e i suoi sostenitori sono diffusi in molti paesi europei, tra cui l’Italia, con decine di migliaia di utenti che seguono i canali sociale legati a QAnon, adattandosi ai contesti locali.
A ognuno, la scelta: collegare le coincidenze come fossero cause, affidarsi a Q e compagni, infilarsi un copricapo con le corna, oppure disporsi in atteggiamento di autentica ricerca, che non elude le domande ma che sta altresì bene allerta per non cadere nella “rete” dei movimenti del complotto.
Bibliografia
Brotherton R., Menti sospettose. Perché siamo tutti complottisti, Bollati Boringhieri, Milano, 2017.
Pomerantsev P., Questa non è propaganda. Avventure nella guerra contro la realtà, Bompiani, Milano, 2020.
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