Una delle mie letture estive più interessanti è stato il testo di Edgar Cabanas e Eva Illouz, Happycracy. Come la scienza della felicità controlla le nostre vite, fresco di pubblicazione per Codice Edizioni, definito sul retro di copertina come “un libro provocatorio e urgente sulla ricerca universale della felicità e sulla dittatura che questa ricerca ha imposto a tutti noi”.
Come verrà chiarito nel corso del testo, non si tratta di un saggio contro l’aspirazione ad essere felici in senso lato, piuttosto di una critica serrata nei confronti di una visione riduzionista della “vita bella” che viene promossa dalla cosiddetta “scienza della felicità”. Una pseudoscienza, per la verità, elaborata dalla psicologia positiva di Martin E.P. Seligman nei primi anni Duemila e diffusasi poi dagli Stati Uniti in tutto il mondo ad opera di psicologi, coach, counselor e vari altri esperti d’auto-aiuto.
In appena un ventennio, la ricerca di una felicità idealizzata è ormai onnipresente nella nostra vita quotidiana.
In televisione, alla radio, al cinema, nelle riviste, in palestra, nelle diete e nei consigli per l’alimentazione, negli ospedali, in ufficio, a scuola, all’università, nella tecnologia, nello sport, a casa, nella politica e ovviamente sugli scaffali dei supermercati: la felicità è diventata una componente fondamentale dell’immagine che abbiamo di noi stessi e del mondo, un concetto così familiare che per lo più lo diamo per scontato. E soltanto a metterlo in discussione si rischia di sembrare folli o almeno un bel po’ impertinenti.
La felicità è diventata una mentalità e ha a che fare con il trovare sempre la forza interiore e con la capacità sempre rinnovata di mettere in gioco la parte più autentica di se stessi; è inoltre l’unico scopo in grado di dare senso alla vita e il metro per giudicare il valore di una persona.
La felicità è una responsabilità individuale e per raggiungerla è necessario affidarsi a degli esperti. Il self-made man contemporaneo, ha infatti bisogno di consigli e istruzioni: fiorisce quindi un mercato basato sulla commercializzazione di aneddoti di cambiamento, redenzione e di successo personale.
La felicità oggi, non è più un concetto nebuloso, un obiettivo utopico e inaccessibile, bensì diviene un traguardo universale e un’idea misurabile (questionari, scale e metodi vengono applicati alla misurazione oggettiva dei concetti di felicità, benessere soggettivo ed equilibrio edonico tra affetti positivi e negativi)[1]. La felicità, così come teorizzata dai suoi esperti, simboleggia il trionfo della società individualista, frammentata e terapeutica; la felicità si identifica con la produttività, la funzionalità, la bontà e addirittura la normalità.
La scienza della felicità comanda a ciascuno di noi di essere contento, ed inoltre lo giudica quando esprima l’incapacità di vivere in maniera più appagante rispetto a quella che attualmente conduce.
“ Viviamo in un’epoca divorata dal culto della psiche. In una società afflitta dalle divisioni, di razza, di classe e di genere, siamo comunque uniti dal Vangelo della felicità psicologica. Ricchi e poveri, bianchi e neri, maschi e femmine, eterosessuali e omosessuali, condividiamo tutti le stesse convinzioni: i sentimenti sono sacri, la salvezza risiede nell’autostima, la felicità è l’obiettivo supremo e la guarigione psicologica è il mezzo per raggiungerla”. [2]
L’epifania della psicologia positiva
Un aneddoto interessante, racconta la nascita della psicologia positiva. Martin Seligman, nel 1998 fu eletto al vertice dell’APA – American Psychological Association, la più grande associazione di categoria degli psicologi americani. A pochi mesi dall’elezione, egli stava liberando il giardino dalle erbacce; ad un certo punto, si accorse che la figlia Nikki, che all’epoca aveva cinque anni, stava lanciando le infestanti per aria. Quando Seligman allarmato la sgridò, la piccola rispose: “Papà, ti ricordi come ero prima di compiere cinque anni? Ero una piagnucolona. Mi lamentavo sempre. Il giorno del mio quinto compleanno ho deciso che non l’avrei fatto mai più. È stata la cosa più difficile della mia vita, e se io posso smettere di piagnucolare, allora tu puoi smettere di brontolare”.
Seligman si rese conto a quel punto che educarla “non significava correggere la tendenza a lamentarsi” bensì promuovere le sue “meravigliose qualità”. Lo psicologo statunitense constatò quindi che, proprio come molti genitori, anche la psicologia commetteva un errore a focalizzarsi sugli aspetti negativi delle persone, piuttosto che svilupparne le qualità positive e aiutarle a coltivare le loro potenzialità.
“Fu un’epifania”, affermava con enfasi Seligman nel suo Manifesto della psicologia positiva.
La psicologia positiva fu presentata ai massimi livelli del mondo accademico come una nuova impresa scientifica: inaugurava un nuovo settore, capace di attrarre un gran numero di adesioni. La psicologia positiva dichiarava la propria indipendenza dal modello psicologico classico, e con l’aiuto della stampa internazionale, particolarmente entusiasta, fu diffusa tra i ricercatori professionisti, così come tra le persone comuni: una nuova scienza della felicità, che prometteva di scoprire le chiavi psicologiche del benessere e del senso della vita.
Nel 2004, Seligman e Christopher Peterson, pubblicarono un nuovo “Manuale della salute mentale”, come lo definirono, che si poneva come contraltare del Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali (il DSM) e alla Classificazione delle malattie e dei problemi sanitari correlati(la ICD, stilata dall’Organizzazione mondiale della sanità), i due più importanti testi di riferimento per psichiatri, psicologi e terapisti di tutto il mondo. Character Strenghts and Virtues: A Handbook and Classification(Qualità e virtù del carattere: manuale e classificazione) non diagnosticava e misurava malattie mentali, ma presentava una classificazione universale delle qualità umane, “allo scopo di aiutare le persone a raggiungere il massimo delle loro potenzialità”, nonché di orientare ricercatori e professionisti nel processo di valutazione degli aspetti più autentici, giusti e responsabili del carattere.
Gli autori definivano la loro come una classificazione, e non come una tassonomia dei caratteri positivi, dato che non erano ancora in grado “di specificare una teoria logica della felicità.”
S’incominciava così a dare progressivamente ma inesorabilmente le spalle all’infelicità: tutti, senza eccezione alcuna, potevano (e dovevano) affidarsi agli esperti per incominciare il viaggio alla scoperta della parte migliore di se stessi.
“La psicologia positiva rende le persone più felici. Insegnare la psicologia positiva, fare ricerca nell’ambito della psicologia positiva, mettere in pratica la psicologia positiva come coach o terapeuta, far fare esercizi di psicologia positiva alle prime classi delle scuole superiori, prendersi cura dei figli con l’aiuto della psicologia positiva, formare gli istruttori nell’insegnamento della ripresa post-traumatica, anche solo leggere del materiale informativo sulla psicologia positiva, ebbene tutte queste sono attività che rendono la gente felice. Le persone che lavorano nell’ambito della psicologia positiva sono quelle con il più elevato grado di benessere che io abbia mai conosciuto.”[3]
Gli psicologi positivi pur rivendicando l’indipendenza della loro corrente e presentandosi come un’alternativa alla psicoterapia tradizionale, non tagliarono mai i ponti con la psicologia clinica, e neppure misero in discussione i fondamenti metodologici e teorici che incontravano l’approvazione generale; viceversa, sostenevano che la disciplina tradizionale era necessaria per studiare le malattie mentali. Aggiungevano però che era necessario cercare la felicità non solo quando le cose andavano male, ma anche quando andavano bene. Introducevano così un compito inedito per la psicologia: non più rimediare alla sofferenza, ma massimizzare le potenzialità dell’individuo.
E ciò significa altresì che non solo le persone che soffrono di qualche specifico disturbo psicologico ma anche coloro che stanno bene, possono/devono rivolgersi allo psicologo se vogliono stare meglio e appunto essere maggiormente soddisfatti e felici.
Non è sfuggito a numerosi osservatori autorevoli che nonostante la sua popolarità, il movimento della psicologia positiva soffre di lacune intellettuali e debolezza delle prove scientifiche: dopo quasi un ventennio di attività e più di 64.000 ricerche sulla vita ideale, i risultati sono spesso incongruenti, inconcludenti, ambigui e addirittura talvolta contraddittori. Alcuni studi, ad esempio, dimostrano che una data caratteristica o variabile è la chiave della felicità, mentre altri giungono a conclusioni diametralmente opposte.
Per la psicologia positiva la felicità non è un concetto articolato e complesso, intessuto di sfumature storiche e filosofiche, bensì si tratta di un concetto oggettivo e universale che può essere misurato in modo imparziale e preciso.
La matrice neoliberista della “formula della felicità”
In particolare, come riconoscono Cabanas e Illouz, si tratta di un concetto di felicità di matrice neoliberista: il neoliberismo è una filosofia sociale di stampo individualista, il cui postulato antropologico è riassumibile in una frase di Nicole Aschoff: “siamo tutti attori indipendenti e autonomi che, incontrandosi sul mercato, costruiscono il proprio destino e, così facendo, anche la società”[4].
Si assiste al tracollo generale della dimensione sociale a favore di quella psicologica. Vi è uno stretto rapporto tra felicità e individualismo, all’interno di una visione che considera la vita del singolo come un’entità separata dalla comunità e che colloca nel singolo la causa e la radice di qualsiasi comportamento.
Gli esponenti della psicologia positiva non riconoscono normative esterne all’individuo stesso. Qualsiasi azione derivata dall’espressione delle proprie qualità è di per sé necessariamente felice e, come dichiara lo stesso Seligman, poco importa se si sta parlando di un sadico che prova piacere ad ammazzare le persone, di un killer che trae gratificazione dal trucidare le sue vittime o di un terrorista che dirotta un aereo. Queste azioni sono da condannare sì, ma solo “su basi indipendenti dalla teoria [della psicologia positiva]”.
La psicologia positiva fa in questo modo dell’individualismo un prerequisito etico e culturale della felicità, e della felicità la giustificazione scientifica dell’individualismo, presentato come un valore dotato di legittimità morale.
In effetti una delle caratteristiche più evidenti di questa disciplina, a partire dalla sua fondazione, è di minimizzare, se non addirittura ignorare, il ruolo delle circostanze esterne. Ciò traspare anche dalla scelta degli strumenti per quantificare la felicità, tra i quali la “scala della soddisfazione esistenziale “, un questionario che tende ad esaltare fattori individuali soggettivi a scapito di quelli sociali, economici, culturali, politici o comunque più oggettivi.
Nel 2002, Seligman presentò la sua celeberrima “formula della felicità”:
“ H=S+C+V, dove H (Happiness) è il vostro livello permanente di felicità, S (Ser range) è la vostra quota fissa, C rappresenta le circostanze della vostra vita e V i fattori che dipendono dal vostro controllo volontario”.
In base a questa formula, i fattori genetici contano per il 50% e quelli volontari, cognitivi ed emotivi per il 40%; rappresenta invece solo il 10%, l’insieme delle condizioni di vita e di tutte le variabili esterne, come il reddito, l’istruzione e la posizione sociale, le quali si ritiene non abbiano una grande importanza per la nostra felicità.
La formula della felicità è stata oggetto di critiche pesanti, come quella di Barbara Ehrenreich in Smile or Die: How Positive Thinking Fooled America and the World. La Ehrenreich, sottolinea le diverse conseguenze sociali e morali di questo svilimento dei fattori esteriori. Se essi non contribuiscono in modo significativo alla nostra felicità, che senso ha lottare per avere scuole migliori, condizioni di lavoro più eque, quartieri sicuri o la copertura sanitaria universale? Ed è proprio vero che il reddito sia ininfluente o quasi?
Affermare che gli esercizi di auto aiuto sono sufficienti, anche senza alcun cambiamento sociale, è indice di un ragionamento non solo miope, ma moralmente discutibile. La scienza della felicità conduce alla miopia nei confronti dell’ingiustizia sociale e infine promuove la passività.
Vi è tutta una serie di pratiche per la felicità, che invita l’individuo a concentrarsi su se stesso. Tra questi Cabanas e Illouz annoverano la Mindfulness, che orienta l’attenzione verso la vita interiore per consolidare la propria capacità di agire più efficacemente nel nostro mondo frenetico e caotico. In generale, prolificano pratiche che reificano l’interiorità, e trasformano l’ossessione per la vita interiore, il corpo e l’auto-miglioramento in un imperativo morale, un bisogno personale e una risorsa economica. Un pacchetto di tecniche per distogliere l’attenzione dal mondo circostante indirizzandola solo su se stessi.
Dovremmo chiederci se questi interventi e queste pratiche della psicologia positiva, fondati su una concezione individualistica della vita, non contribuiscano a creare e a perpetuare le insoddisfazioni stesse che promettono di debellare.
Una felicità che crea infelicità
Gli esperti del settore, li sentiamo spesso sostenere che oggi giorno viviamo più a lungo e naturalmente che siamo molto più felici rispetto a qualsiasi altro periodo storico. Tuttavia ciò è contraddetto dal fatto che ogni anno milioni di persone, all’interno di queste nostre società moderne, cercano i prodotti, i servizi e le terapie dell’industria della felicità: evidentemente non sono poi così felici e soddisfatte della propria esistenza.
Importanti ricerche inoltre denunciano impressionanti livelli di depressione, ansia, malattie mentali, disturbi dell’umore, abuso di farmaci e distacco sociale che caratterizzano la cosiddetta cultura narcisista o “cultura dell’io”.
Senza contare il diffondersi di un generale senso di colpa per le forme di malessere che non si riescono a sanare. Dato che l’individuo è divenuto l’unico responsabile delle proprie scelte, del proprio benessere e dei propri traguardi, chi non sta bene, né riesce a sentirsi meglio, viene stigmatizzato: sono sintomi di una volontà debole, di una psiche disfunzionale, o perfino indicatori di una vita sprecata. Come osserva Lipovetzsky oggi ammettere di essere infelici o non del tutto felici è fonte di vergogna e senso di colpa, al punto tale che le persone preferiscono mostrarsi perfettamente felici e soddisfatte anche nelle circostanze più sfavorevoli.[5]
I membri delle società individualiste, nei questionari sulla felicità tendono a darsi un punteggio alto, di solito superiore al sette (su dieci). D’altra parte, il dato non è così attendibile se evidentemente gli individui di queste società, per proteggere la propria autostima, sono indotti ad inibire qualsiasi autovalutazione negativa della propria esistenza.
Nelle nostre scuole, bambini e adolescenti sono costantemente raggiunti da una “educazione positiva”, nella convinzione che l’apprendimento sia ostacolato o favorito soprattutto da fattori di tipo emotivo e individuale, più che da quelli di ordine sociologico. Gli studenti e le studentesse devono imparare a gestire le emozioni, ad adottare una mentalità ottimista nei confronti di se stessi e delle loro capacità di apprendimento, riflettere sugli obiettivi a lungo termine e sentirsi bene con se stessi. È stata definita come “la svolta terapeutica dell’istruzione”.
Non si può evitare di riconoscere che l’educazione positiva nasconda la pericolosa promozione di un’identità fragile che privilegia l’egocentrismo emotivo a scapito della riflessione intellettuale e predispone distruzione a una totale dipendenza dalle valutazioni psicologiche e dalle opinioni degli esperti.
Kathryn Ecclestone e Dennis Hayes, arrivano addirittura ad affermare che “La maggioranza dei bambini e dei giovani non ha un disturbo, ma questa formazione glielo procurerà. Non è un caso se, dopo aver seguito questi programmi, molti si dichiarano ansiosi, con un’incidenza senza precedenti… l’istruzione terapeutica instilla vulnerabilità, i bambini le esprimono e di conseguenza vengono sottoposti ad altri interventi terapeutici”.[6]
Siamo tutti ormai abituati a perseguire la felicità ognuno per suo conto, convinto che il proprio valore sia strettamente legato ad un auto-miglioramento perfetto da effettuarsi attraverso strumenti psicologici.
Gli scienziati della felicità presumono che l’individuo sia dotato di un meccanismo psicologico che gli permette di governarsi da sé, in particolare se questo sistema viene allenato attraverso l’impiego delle tecniche mentali appropriate, per esercitare la capacità di autocontrollo. Le pratiche da esercitare sono ideate per una fruizione immediata e tendenzialmente non mirano ad effettuare un cambiamento profondo o strutturale, ma si focalizzano su aspetti pratici, che chiunque può capire, gestire e modificare in modo autonomo. Queste tecniche usano un linguaggio colloquiale, comprensibile, appetibile; parlano di ottimismo, speranza, gratitudine, soddisfazione.
Esiste persino un’applicazione web assai popolare: Happify. Essa permette di monitorare il proprio stato emotivo in tempo reale, fornisce esempi per lavorare sulle emozioni e pensieri positivi, insegna a raggiungere obiettivi ambiziosi diversi campi e spiega come essere sempre soddisfatta. L’accesso illimitato costa 14,95 $ al mese. Prevede anche alcune guide on-line per determinare “chi è il più felice”.
Questa ed altre piattaforme simili sono evidentemente un potente strumento di sorveglianza, in cui le emozioni, i pensieri e i segnali corporei sono elaborati per permettere di catalogare, prevedere indirizzare il comportamento degli utenti in cambio della promessa di una maggiore felicità.
Del resto, sui social è quanto mai evidente l’obbligo alla felicità e la preoccupazione di apparire sempre sorridenti qui è estrema, raggiunge livelli quasi patologici. Il mercato prospera sulla creazione di un nuovo tipo di “ipocondriaci della felicità “.
Canbas e Illouz non cessano di sottolinearlo: la miriade di tecniche per raggiungere la felicità spesso non hanno nulla di scientifico e nelle ricerche condotte a riguardo non si evidenziano risultati significativamente diversi dal placebo. Se qualcuna di queste tecniche funziona, è soprattutto perché chi le esegue ne condivide i principi, tende ad essere motivato e ha già deciso fermamente che vuole diventare più felice. Come a dire che queste pratiche funzionano per te solo se ti riconosci già nel profilo del perfetto “ricercatore di felicità” che fondamentalmente crede in questo genere di interventi.
La sofferenza negata
Spesso la psicologia positiva propone la netta distinzione tra emozioni positive ed emozioni negative riservando alle prime una superiorità sulle seconde. Addirittura secondo Barbara Fredrickson “le emozioni positive sono inconciliabili con quelle negative”; le prime sono una sorta di protezione, “un antidoto efficace contro gli effetti a lungo termine” delle seconde[7].
In realtà, le emozioni sono esperienze complesse che abbracciano una vasta gamma di fenomeni diversi come le sensazioni corporee, la consapevolezza e le valutazioni soggettive, le espressioni, le influenze storiche e culturali (connotazioni, valori e narrazioni condivise) e le strutture sociali (norme, regole interiorizzate e modelli di comportamento sociale).
Inoltre, l’idea che le emozioni positive diano sempre risultati positivi mentre quelle negative abbiano sempre conseguenze solo negative, è assai semplicistica. Ad esempio, l’allegria può aiutare ad affrontare le sfide ma può anche spingere a prendere decisioni poco accorte e a correre rischi eccessivi; la rabbia genera comportamenti distruttivi ma può anche servire per sfidare l’autorità e consolidare i legami interpersonali e sociali di fronte alle minacce condivise; nell’invidia c’è risentimento e ostilità, ma è anche associata all’ammirazione che alimenta la determinazione a raggiungere gli obiettivi.
Nella dittatura di Pollyanna ogni individuo, nonostante le sciagure che gli capitano, deve restare convinto che tutto andrà sempre per il meglio, proprio come la piccola bambina del romanzo per l’infanzia di Eleanor Hodgman. Anche se la vita riserva un trattamento spietato, resta pur sempre bella. Chi non vede l’aspetto positivo di una data situazione è infine responsabile delle proprie disgrazie: le persone depresse, emarginate, ammalate, ecc., non hanno una vita felice perché non ci provano abbastanza e non sanno sfruttare al meglio le opportunità.
Chi soffre quindi è costretto a sobbarcarsi il proprio fardello emotivo aggravato dal senso di colpa perché non sa superare gli ostacoli della vita.
In realtà come ci ricorda il filosofo William James, perdite e tragedie più o meno ingenti sono inevitabili, poiché non si può ovviare al fatto che nella vita ciascuno di noi si trovi di fronte alla necessità di operare delle scelte. Qualsiasi scelta morale comporta sempre il sacrificio di un bene: nessuna scienza della felicità può salvarci da quei piccoli e grandi dolori nei quali ci batteremo inevitabilmente nel corso della vita.
Non si tratta allora di negare che la scienza della felicità possa rivelarsi utile per certi individui, perché in effetti alcuni dei suoi metodi e dei suoi consigli possono aiutare determinate persone a stare meglio. Tuttavia, essa non rappresenta un bene supremo e di per se stesso evidente, né essa indica l’unica strada per chi ricerchi una crescita personale. La scienza della felicità è anzi allo stato attuale uno strumento potentissimo in mano alle organizzazioni e alle istituzioni che permette di costruire un insieme di lavoratori e di cittadini più obbedienti. Vale la pena di citare, a questo proposito, la tesi del sociologo Frank Furedi che ne Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, denunciava il diffondersi di un’etica terapeutica volta a promuovere non tanto l’autorealizzazione, quanto un’autolimitazione, dovuta al fatto che, postulando un sé fragile e debole, induce a credere che per la gestione dell’esistenza sia necessario un continuo ricorso a pratiche terapeutiche, finendo col determinare una forma di controllo sociale, con “l’insegnare a stare al proprio posto, offrendo in cambio i dubbi benefici della conferma e del riconoscimento”.
Cortazar nel 1962 metteva in guardia dalla nostra ossessione per il tempo ricordandoci che cosa accade quando ci regalano un orologio:
“Quando ti regalano un orologio ti regalano un piccolo inferno fiorito… Ti regalano un’ossessione di controllare l’ora esatta… Ti regalano la paura di perderlo, che te lo rubino, che si cada a terra e che si rompa. Ti regalano la sua marca, e la certezza che sia una marca migliore delle altre, ti regalano la tendenza a fare il confronto tra il suo orologio e gli altri orologi. Non ti regalano un orologio, sei tu che sei regalato, sei il regalo per il compleanno dell’orologio.”[8]
Se non vogliamo restare impigliati in questo meccanismo, sacrificando la vita all’altare di un’illusoria felicità, conviene coltivare l’arte della consapevolezza e mantenersi vigili affinché quest’ossessione non giochi contro di noi e si trasformi in schiavitù. Il piacere e la ricerca della felicità non devono rimpiazzare la ricerca della conoscenza, l’analisi critica rivolta a se stessi e al mondo che ci circonda, unici strumenti per conservare uno spazio di libertà.
Le relazioni d’aiuto hanno oggi più che mai bisogno di non escludere dal proprio intervento la filosofia intesa come capacità di sviluppare uno sguardo complesso su se stessi, sulle nostre relazioni e sul mondo.
Il bisogno di Filoso-fare
È la riflessione filosofica oltre che sociologica che ha permesso a Cabanas e Illouz di riconoscere la “visione del mondo” sottesa alla “scienza” della felicità, la quale è ben lungi dall’essere “oggettiva ed imparziale” come pretendono i suoi rappresentanti; ed è la riflessione filosofica che permette a ciascuno di noi di non farsi ingannare e di mantenere aperti gli occhi su stereotipi, pregiudizi e idee preconcette che assimiliamo dall’ambiente sociale e culturale in cui viviamo.
Inoltre, solo una relazione d’aiuto che non dimentichi la funzione fondamentale della filosofia può offrire alle persone la possibilità di “fiorire” come esseri umani e non semplicemente di “funzionare” come parte di un preciso ingranaggio. Fiorire come individui senza perdere il profondo legame con la comunità e non come individualisti orientati alla prestazione che sgomitano per il successo.
Ciò significa per i professionisti dell’aiuto occuparsi di felicità, di educazione emotiva, di mindfulness-consapevolezza, di coaching o di counseling, senza restare intrappolati nel pensiero unico e senza dimenticare di promuovere una riflessione approfondita e critica su di sé e sulla realtà circostante.
Significa altresì riconoscere la sofferenza come fenomeno connaturato all’umana esistenza, che non va considerato “negativo” a prescindere e non va sfuggito velocemente con l’aiuto di pillole e facili rimedi prêt-à-porter: la sofferenza va piuttosto percorsa e compresa nella sua complessità.
Per un filosofo la persona che soffre, lungi dal trovarsi in uno stato vergognoso del quale sentirsi “in colpa”, è una persona feconda che manifesta le doglie di un parto che avrà da venire. Né, vale la pena ricordarlo, tutto il dolore è patologia, come si vorrebbe far credere: è sano anzi e non patologico essere nel dubbio, sollevare domande sulla propria esistenza, sottoporre a verifica le proprie idee, prendere in esame la propria visione del mondo, cercando di scorgere quanto c’è di angusto, di ristretto, di fossilizzato, di rigido, di coatto, di inidoneo per affrontare i cambiamenti della propria vita e i mutamenti così rapidi e imprevisti del mondo.
La sofferenza che oggi proviamo, inoltre, non origina solo dall’individuo, assai più spesso è generata dall’organizzazione sociale, con riferimento a quelle microsocietà che sono la scuola, l’ospedale, il carcere, la fabbrica, l’ufficio, e più in generale il “mondo” in cui quotidianamente ciascuno di noi vive.
Come sottolinea opportunamente Umberto Galimberti:
“Ciascuno di questi mondi ha in vista i propri obiettivi e non la realizzazione di coloro che vi operano. Ciò può provocare “sofferenza” che non è necessariamente una “malattia”. E siccome la psicologia non si occupa del mondo, ma esclusivamente dell’Io, ciascuno è portato a cercare in se stesso la soluzione di una sofferenza che invece nasce dal mondo in cui si trova ad operare”.
Galimberti riconosce a questo proposito la necessità di imboccare un’altra strada per affrontare adeguatamente questo tipo di sofferenza:
“Il counseling filosofico segue una strada diversa rispetto a quella della psicologia, perché non interviene solo sull’individuo, che spesso attribuisce a sé sofferenze indotte dal mondo in cui quotidianamente si trova a operare, ma interviene su quel mondo, che può essere la scuola per migliorare modalità didattiche che spesso abbandonano gli studenti nell’indifferenza e nell’apatia, l’ospedale per migliorare la relazione medico paziente così decisiva nell’efficacia delle cure, il carcere onde evitare quelle micro-umiliazioni che i detenuti, impotenti, quotidianamente subiscono come pena aggiuntiva alla limitazione della loro libertà, la fabbrica dove spesso l’operaio non è visualizzato diversamente dalla macchina su cui opera, quando addirittura non è considerato al servizio di quella macchina, l’ufficio dove la responsabilità spesso è limitata all’osservanza delle disposizioni, quindi verso il superiore che le ha impartite, senza nessun interesse e nessuna cura per chi a quell’ufficio si rivolge”[9].
La filosofia è il vero antidoto alla dittatura di Pollyanna, in modo particolare nella sua declinazione pratica, attraverso la consulenza filosofica, il counseling filosofico e le pratiche filosofiche che si avvalgono oggi di strumenti sempre più affinati per scongiurare i rischi e correggere le devianze del culto della felicità.
Come ricordano Cabanas e Illouz, sono la conoscenza e la giustizia a costituire il vero motore rivoluzionario della nostra esistenza personale e collettiva. Sono quindi la conoscenza e la giustizia che meritano tutto il nostro impegno, non il divieto di provare sofferenza né l’obbligo morale all’universale sorriso rigorosamente stampato sui nostri selfie.
Articolo di Maddalena Bisollo
[1] Gli esempi più conosciuti sono l’inventario della felicità di Oxford (OHI, Oxford Happiness Inventory), la scala della soddisfazione esistenziale (SWLS, Satisfaction With Life Scale), il questionario degli affetti positivi e negativi (PANAs, Positive Affect, Negative Affect Schedule), il metodo del campionamento dell’esperienza (ESM, Experience Sampling Method) e il metodo di ricostruzione della girnata (DRM, Day Reconstruction Method).
[2] Eva S. Moskowitz, In Therapy We Trust, Jhons Hopkins University Press, Baltimora e Londra 2001, p.1.
[3] Martin E.P. Seligman, Fai fiorire la tua vita: una nuova, rivoluzionaria visione della felicità e del benessere, Anteprima, Torino, 2012, pp. 7-8, corsivo nell’originale.
[4] N. Aschoff, The New Prophets of Capitalism, Verso, Londra, 2015, p. 87.
[5] G. Lipovetsky, Una felicità paradossale: sulla società dell’iperconsumo, Raffaello Cortina, Milano 2007.
[6] The Dangerous Rise of Therapeutic Education, Routledge, Londra e New York, 2009.
[7] B.L. Fredrickson, The Role of Positive Emotions in Positive Psychology, in”American Psychologist”, 56, 2001.
[8] J. Cortazar, Storie di Cronopios e di Famas, Einaudi, Torino, 1997, p.20.
[9] Umberto Galimberti, Introduzione al Dizionario del counseling filosofico e delle pratiche filosofiche, a cura di L.Nave, P.E. Pontremoli, M.E. Zamarchi, Mimesis, Milano, 2013, p.21.
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