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Oltre la vendetta. Pratiche filosofiche di giustizia. Di Maddalena Bisollo

«Se noi riconosciamo,» pensavo, «che errare è dell’uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia?»

Luigi Pirandello

 

Alle origini della giustizia e del diritto

A ciascuno di noi sarà capitato talvolta di subire o rilevare un’ingiustizia e di avere l’inclinazione a porvi rimedio, a “fare giustizia”, spesso provando anche il desiderio che il colpevole sia punito. È talmente naturale tutto questo che il più delle volte non ci soffermiamo a riflettere sulla appropriatezza di queste inclinazioni e di questi desideri o, se vogliamo, sulla loro “giustezza”. Ugualmente, non è sempre così facile stabilire che cosa significhi essere nel giusto e ancor meno che cosa voglia dire in termini sia teorici che pratici “fare giustizia”.

L’antico termine greco per giustizia è dike e la sua origine esclude che l’uomo ne possa disporre. Così come la verità non è qualcosa che si possieda ma piuttosto qualcosa di cui si va alla ricerca, così anche dike appartiene ad un oltre che sfugge. C’è in effetti una stretta parentela tra la ricerca della verità e la ricerca della giustizia, rintracciabile nell’antica lingua greca: dike – giustizia –  deriva dal verbo deyknimi, “mostrare”, “indicare”, mentre aletheia – verità – significa ciò che esce dal nascondimento, ciò che si svela e appunto si mostra. Dike e aletheia sono dunque entrambe forme di disvelamento (non di possesso).

Nella sua accezione arcaica, reperibile in Esiodo e in Pindaro, dìke si configura come ordine cosmico: essa è “la maniera di essere di ogni cosa naturale, di ogni pianta, di ogni uomo. È anche il modo, la consuetudine, il corso naturale del grande animale che è l’universo, modo che si manifesta nelle stagioni, nella vita e nella morte della vegetazione; e quando si comprende che le vicissitudini dipendono dai corpi celesti, Dike di manifesta nei cambiamenti, nel sorgere e tramontare delle costellazioni, nel crescere e nel calare della luna, nel corso giornaliero e annuale del sole” (Harrison in Curi, 2019, p.81). La giustizia originaria eccede l’umano, è il ritmo del cosmo.

Secoli più tardi il termine dike estenderà il suo dominio semantico alla giustizia sociale e al sistema del diritto – prima tradotti con il termine themis – , come ad esempio accade nella Politeia di Platone, e allora diventerà giustizia mondana. Ma originariamente esso indica una giustizia che eccede le cose di questo mondo e appare indisponibile all’uomo, che non è dunque in grado di “fare giustizia” da sé. Ciò è ricordato anche in un famoso frammento di Anassimandro in cui l’espressione didonai diken “rendere giustizia” non sta ad indicare qualcosa che appartenga all’ambito umano e tantomeno al piano dei rapporti giuridici tra gli uomini. Si tratta invece del processo cosmico di generazione degli enti dal caos originario – descritto come un reciproco “farsi ingiustizia” degli enti – per cui essi dovranno poi “pagare il fio”, ritornando all’originaria indeterminatezza da cui provengono.

Dike è una compensazione immanente al corso stesso degli eventi, in cui a un’ingiustizia (adikia) subentra poi corrispettivamente una giustizia che la corregge. Dike non cancella e non previene le colpe ma ne rimedia gli effetti, ripristinando gli equilibri turbati. In questo senso, dike leviga le asperità, raddrizza le storture, acquieta la contesa, ottunde la hybris, e in altre parole regge il kosmos, l’ordine universale, soggetto a regole ben definite che tengono in forma la molteplicità dei processi fisici, umani e sociali.

In una concezione arcaica, la legge degli uomini non rispecchia perfettamente la giustizia, non può farlo, perché essa non è di questo mondo. D’altra parte, nomos, la legge umana, è necessaria per governare le cose di qui, per evitare che bia – la violenza cieca e irrazionale – abbia il sopravvento. La legittimità di questo governo è data dal fatto che nomos viene alimentata dalla legge divina, poiché solo così può rendere – secondo le parole del poeta Pindaro –“giusta (dikaion) la cosa più violenta (to biaiotaton)”. Se è vero che la giustizia eccede il mondo, nomos è necessaria proprio per poter riparare a questa assenza: essa è il tentativo di un riflesso mondano della Dike eterna.

Questa distinzione originaria ci serva da punto di partenza: il diritto non è la giustizia. Si tratta di una differenza essenziale che non può essere rimediata, nel senso che non potrà mai esserci un diritto pienamente corrispondente alla giustizia, ma sempre un’approssimazione.

Il termine “diritto”, in tutte le lingue di matrice indoeuropea, è associato alla linea retta: in italiano è diritto, in inglese right, in tedesco recht, in francese droit.

“Fondamentale nell’idea stessa del diritto è dunque la linearità, la precisione – la stessa linearità e precisione che si trovano in tutto ciò che è dritto, che procede secondo una linea retta” (Curi, 2019, p.99).

Il diritto è ciò che è dritto, che procede con rettitudine, che mantiene la linea, che non si deforma, che non muta. Attraverso questa indeformabilità il diritto compie la sua opera mimetica rispetto all’ordine di Dike e svolge il fondamentale, per quanto imperfetto, compito di amministrare le relazioni tra gli uomini. L’inviolabilità delle norme e la linearità delle procedure garantiscono quindi la positiva funzione dell’ordinamento giudiziario.

 

Rabbia: tra desiderio di giustizia e istinto di vendetta

Quando subiamo una grande ingiustizia avvertiamo che si è rotto qualcosa, un equilibrio che prima c’era e ora non c’è più. Si è compiuta una violenza (bia) che ha sconvolto l’ordine precedente. Di solito, di fronte a un grave torto subìto, proviamo una grande rabbia: essa testimonia questo equilibrio rotto, traducendolo in un turbamento del cuore e della mente. Il pensiero dell’ingiustizia è costante, la tachicardia lo accompagna e il desiderio è che giustizia ritorni, che l’equilibrio venga ripristinato.

“Cosa si può dire di buono della rabbia comune, alla fine?”, si chiede Martha Nussbaum in un saggio espressamente dedicato ai delicati temi dell’ira e del perdono. Già, esiste qualcosa di buono, di positivo nella nostra rabbia? Può essere utile? Secondo la studiosa americana certamente sì.

“Primo, può servire come segnale che qualcosa non va. Questo segnale può essere di due tipi: un segnale per la persona stessa, che potrebbe non essere consapevole dei propri parametri di valore e della loro fragilità; e può essere un segnale al mondo, una sorta di punto esclamativo che attira l’attenzione su un’ingiustizia” (Nussbaum, 2017, p.65)

Di buono la rabbia ha che ci sensibilizza – proprio ci rende sensibili – a ciò che non va dentro e fuori di noi. L’esperienza della rabbia può, ad esempio, renderci consapevoli dei nostri bisogni e dei nostri valori e del modo in cui l’azione di qualcun altro possa violarli: è il caso di chi viene sfruttato e maltrattato, all’interno di relazioni gerarchiche, magari non rendendosi pienamente conto di quanto ingiustamente sia trattato, fino a quando non abbia una o più manifestazioni di rabbia. Potrebbe essere l’inizio di una protesta volta a migliorare la situazione e in tal caso arrabbiarsi si rivelerebbe utile. Si tratta della funzione della rabbia come una sorta di “sveglia”, sia per noi stessi che la proviamo sia per il contesto nel quale ci muoviamo.

Nondimeno, occorre comprendere come questa sveglia funzioni, per capire perché spesso essa ci porti fuori strada, facendo scattare un “allarme” in qualche caso sproporzionato alla situazione, in altre circostanze svelando il suo carattere distruttivo e/o autodistruttivo.

Aristotele definisce la rabbia come “il desiderio, accompagnato da dolore, di vendetta per un’offesa ricevuta ingiustamente da chi ci è vicino” (Retorica, 1378°, 31-33). Il filosofo osserva quindi che la rabbia è sia il riconoscimento di aver ricevuto un torto che un desiderio e un progetto di vendetta, di retribuzione: come a dire che, se mi hai ferito, offeso, tradito, umiliato, allora la devi pagare, in qualche modo.

Per provare rabbia è necessario riconoscere il danno ricevuto come grave e illegittimo: in questo riconoscimento, sensibile e viscerale, dell’ingiustizia consiste la sveglia; una specie di apprensione immediata che sono stati colpiti i nostri desideri, i nostri beni, i nostri valori. Ma insieme è come se si attivasse in noi anche un moto aggressivo volto sì a ripristinare una situazione più equa, più giusta, ma anche a punire l’altro per il suo errore. Qui si nascondono alcuni problemi.

Succede infatti che se un distributore automatico ci “ruba” le monetine senza erogare la bevanda richiesta, d’istinto lo prendiamo a calci: non è raro, infatti, che ci aspettiamo rispetto anche dagli oggetti inanimati; li giudichiamo autori di una ingiustizia nei nostri confronti e di conseguenza li puniamo con un colpo ben assestato. E poi succede pure, purtroppo, che in preda alla rabbia colpiamo anche le persone a noi care, con le parole o con i gesti, qualche volta provocando danni irreparabili alle nostre relazioni.

È come se non fossimo in grado, nella maggior parte dei casi, di attivare la sveglia e di fermarci lì, alla soglia delle nostre azioni, per valutare con razionalità quale sarebbe il comportamento migliore per condurre la situazione a maggiore giustizia. Se riuscissimo a ponderare razionalmente il nostro vissuto, capiremmo che una macchinetta del caffè non ha una volontà propria né può avere l’intenzione di farci un torto. Se fossimo più razionali potremmo, inoltre, riconoscere che comportamenti come l’offesa e l’aggressione, generalmente non ci permettono una reale comunicazione con gli altri, che possa favorire in loro il riconoscimento dell’errore compiuto. Saremmo anche in grado di capire che punire chi ha sbagliato, facendogli del male, soddisfa un certo sadismo, senza però condurre a un equilibrio, rischiando piuttosto di incominciare una catena di dispetti e violenze difficile da arginare.

Il desiderio di retribuzione, ovvero di venire in qualche modo risarciti per il danno e l’ingiustizia che riteniamo di avere subìto, spesso si ritorce contro di noi e contro le nostre relazioni, né ci sostiene adeguatamente nel trovare soluzioni adeguate ai conflitti. Che fare dunque?

Credo che la consapevolezza sia già molto, se ci permette di accogliere quella “sveglia” attivata dalla rabbia, di riconoscere i bisogni e i valori che sono stati offesi e ad affrontare ciò che non va, abituandoci però al tempo stesso anche a guardare con un po’ di sospetto al desiderio di avere una contropartita e di “fare giustizia” punendo gli altri o distruggendo una macchinetta del caffè. Occorre tenere d’occhio l’istinto di vendetta.

Si apre così la possibilità per noi di imparare a soffermarci nell’ascolto di ciò che sentiamo e nell’analisi del desiderio di compiere azioni a danno altrui. Solo così è possibile scongiurare di alimentare l’ingiustizia con nuove iniquità, tradendo così, a pensarci bene, la stessa funzione di questa preziosa sveglia emotiva: vedere più chiaramente quello che non va per porvi il giusto rimedio. Scorgere la via migliore per trovare l’equilibrio e non la strada più facile per vendicare l’offesa; oppure, il che è lo stesso, promuovere la manifestazione della giustizia in senso lato e non immediatamente ricercare la sofferenza di chi ci ha fatto del male.

Occorre ricordare che “violentare O non annulla lo stupro subito da Jennifer. Uccidere un omicida non riporta in vita i morti” (Nussbaum, 2017, p.47). Non importa che questi comportamenti possano “dare soddisfazione” a qualcuno, poiché di fatto non annullano il torto ma sommano ingiustizia a nuova ingiustizia.

 

Per una giustizia senza spada

Il diritto penale classico intende la giustizia come una dea bendata che ha tra le mani una bilancia e una spada: l’equilibrio spezzato dal reato deve essere ripristinato a colpi fendenti, capaci di mettere k.o. l’offensore. Il reo va trafitto e la vittima vendicata.

Così, di fronte a un conflitto tra due parti, “fare giustizia” significa definire il reato, stabilire con certezza chi l’abbia commesso (attraverso un processo) e comminargli la pena opportuna. Più che il termine “conflitto” dovremmo qui più convenientemente parlare di controversia, ovvero di quel genere di conflitto in cui vi è una lesione manifesta, determinata da un atto violento compiuto da un offensore nei confronti di una vittima. Non ci sono quindi due soggetti corresponsabili del conflitto, ma due soggetti non classificabili sullo stesso piano dal punto di vista sia fattuale che morale.

Il diritto penale è ciò che nel reato viene violato e rappresenta il medium che consente di individuare e valutare la lesione, nonché di rimarcare la rilevanza del reato. Al di là delle percezioni e delle interpretazioni personali dei singoli, il diritto stabilisce ciò che è accaduto e ciò che serve per rimediare al reato, che può corrispondere per esempio a una multa oppure, nei casi più gravi, alla carcerazione dell’offensore.

Tutto ciò rappresenta il sistema penale classico che un po’ tutti noi diamo per scontato: è così che si fa giustizia, è così che dev’essere. Tuttavia, stante quanto ammesso nei precedenti paragrafi, dovremmo sempre considerare lo scarto tra il diritto e la giustizia (in senso lato) e inoltre imparare a guardare con sospetto a ogni forma di applicazione del nomos troppo incentrata sulla spada, sulla punizione di chi ha sbagliato, troppo mirata a “dargli una lezione” creandogli un danno o una sofferenza.

Spesso si ha del sistema giuridico un’idea “sacrale”, come se esso fosse intoccabile e senza fratture. Ma se anche il sistema appare fondamentale per l’amministrazione delle controversie, ciò non significa che non sia perfettibile, ovvero modificabile nella sua ricerca di approssimazione a dike.

Uno scossone al sistema giuridico tradizionale è stato dato, negli ultimi decenni, dal concetto di Restorative Justice, promosso attraverso un movimento teorico e pratico di rinnovamento. Nato in Nord America alla fine degli anni Ottanta, è diventato ben presto un movimento di portata internazionale. Esso opera una critica radicale all’impostazione formalistica del diritto penale moderno e contemporaneo, cui corrisponde un sistema altamente burocratizzato, nel quale “fare giustizia” è affare dello Stato nei confronti di un reo, mentre le persone e in primis la vittima – con il loro vissuto, le loro esperienze, le esigenze e le relazioni – rimangono di fatto marginali. La vittima viene infatti tradizionalmente dimenticata, ridotta  a mera occasione per l’attivarsi della reazione anticriminosa.

L’intenzione della restorative justice è quella di produrre un nuovo paradigma entro il quale ripensare la giustizia penale. Si tratta, in particolare, di porre al centro delle attenzioni della giustizia non il sistema o un’idea astratta di ordine giuridico, ma le persone nella loro individualità e nella loro dimensione relazionale. Di conseguenza, l’impostazione del problema crimine-giustizia-pena viene sottoposta a un radicale cambiamento di prospettiva.

Ad oggi una definizione condivisa di che cosa sia la restorative justice sembra mancare. Autori diversi condividono alcuni assunti di base ma poi divergono, specialmente quanto alle restorative practices, ovvero alla traduzione pratica delle linee guida teoriche. Accolgo quindi quella che Federico Reggio indica come una “definizione d’uso”:

“la restorative justice è un approccio alla giustizia che considera il reato principalmente in termini di danno alle persone, dal quale scaturiscono in capo all’autore l’obbligo di porre rimedio alle conseguenze lesive della sua condotta. A tal fine, occorre realizzare un coinvolgimento attivo di vittima, offensore, del loro rispettivo entourage e della stessa comunità civile nella ricerca di soluzioni – possibilmente concordate – atte a far fronte all’insieme di bisogni scaturiti a seguito del reato” (2010, p.22).

Secondo questa definizione, il reato viene concepito in termini concreti quanto alla sua lesività nei confronti delle persone e/o della comunità civile. Da esso nasce l’obbligo di porre rimedio alle conseguenze dannose del comportamento delittuoso. Come si stabilisce, quindi, il “giusto rimedio” al reato? Per trovare un rimedio adeguato, in questa prospettiva, appare necessario il coinvolgimento attivo di tutti gli attori coinvolti: offensore, vittima, loro entourage familiare (e non solo) e comunità civile tutta. Inoltre, vengono preferite le soluzioni consensuali, frutto di un accordo, rispetto a soluzioni imposte da parte di un’autorità.

Porre rimedio alla lesione – e non punire l’offensore –  è il fulcro del concetto di restoration. Riparare l’offesa, rimarginare la ferita, curare le relazioni: un modo di fare giustizia per cui, di fatto, non ci serve alcuna spada.

Restoration significa qualcosa di diverso anche rispetto al tradizionale concetto civilistico di  “risarcimento del danno”, poiché coinvolge aspetti immateriali come il dialogo, il rispetto e la mutualità, quali beni essenziali violati dal reato e che vanno quindi ora ricostituiti. Il reato, infatti, non si configura più come una mera offesa rivolta a un bene giuridico ma anzitutto come “un conflitto che oppone due o più parti all’interno di una comunità” (Mannozzi, 2015).

 

Le restorative practices e la rilevanza del dialogo

Ma in che maniera, concretamente, il movimento della restorative justice, ha modificato e sta modificando in tutto il mondo – e, lentamente, anche in Italia – il sistema penale classico?

La risposta ha a che fare con le cosiddette restorative practices, ovvero con le pratiche di giustizia riparativa, che in molti Paesi vengono affiancate al sistema giuridico tradizionale. Si tratta di pratiche molto variegate, che sono comunque sostanzialmente riconducibili a tre macro-tipologie: la VOM o victim-offender mediation; la FGC o family group conferencing; il Circle Process.

Va sottolineato che talvolta le pratiche riparative sono esterne al sistema penale e alternative alla risposta formale; talaltra invece sono integrate nel sistema stesso della giustizia penale.

La victim-offender mediation è la pratica riparativa più nota e l’archetipo delle restorative practices, tanto da essere spesso confusa con la stessa restorative justice nel suo complesso. In questo caso, lo scopo della mediazione è quello innanzitutto di promuovere un accordo tra la vittima e l’offensore su come porre rimedio alle conseguenze del reato. Quindi, un organo ufficiale (per esempio, un funzionario di polizia, un tribunale, il titolare dell’accusa) deferisce la controversia a un ufficio di mediazione penale, il quale avvia contatti con la vittima e con l’offensore per sondare in primo luogo la loro disponibilità a intraprendere un percorso di mediazione.

Il family group conferencing è invece  il modello principale di procedimento penale nel contesto della giustizia minorile in Nuova Zelanda. Nato nel 1983, ora il sistema processuale tradizionale opera in posizione sussidiaria rispetto ad esso. In questo caso, accanto alla vittima e all’offensore, trovano spazio anche la famiglia del reo e eventualmente anche della vittima. Inoltre, è prevista la presenza di soggetti pubblici (autorità giudiziaria o pubblica sicurezza). Queta pratica punta a risultati ulteriori rispetto all’incontro espressivo-emotivo e all’accordo riparatorio del VOM e il ruolo del facilitatore o mediatore appare molto intenso e attivo, perché occorre trovare soluzioni creative e negoziare in modo integrativo tra i diversi attori in gioco: la conference, infatti, richiede il consenso di tutti i partecipanti su tutti i punti dell’accordo.

Infine, il Circle Process è un confronto tra diversi soggetti: vittima, offensore, famiglie reciproche e talvolta amici, alcuni componenti della comunità, membri del sistema giudiziario, difensori delle parti e altri professionisti di rilievo (operatori dei servizi sociali o del servizio sanitario). Si tratta del modello di maggiore estensione, nel quale il coinvolgimento della comunità è previsto anche per la futura reintegrazione del reo nel tessuto sociale. Ciò si è dimostrato particolarmente utile nel caso il reato coinvolga minoranze etniche e religiose. Il Circle è anche il modello in cui il concetto di “riparazione” si allarga maggiormente: si affrontano insieme a tutti gli attori in gioco i diversi aspetti del reato, cosa sia accaduto, perché, con quale impatto sulle varie parti, cosa si possa fare per riparare alle conseguenze lesive e per prevenire il ripetersi del reato in futuro.

In Italia, diversamente da altri paesi europei, non c’è ancora stato uno specifico intervento legislativo volto a introdurre norme ed istituti esplicitamente ispirati alla restorative justice. Tuttavia, essa è oggetto di sempre maggiore attenzione, specialmente per le potenzialità della mediazione come modello alternativo di soluzione della controversia penale. Il ricorso alla mediazione penale ha trovato spazio specialmente nel settore della giustizia minorile e all’interno della competenza penale del giudice di pace, ivi collocandosi come strumento di giustizia consensuale di tipo riconciliativo. Proprio per la peculiarità dei suoi destinatari, la giustizia minorile è il settore in cui si sono registrate le prime aperture verso una dimensione conciliativa della giustizia penale, tanto più che il bisogno di dare un valore educativo all’esperienza processuale (e talvolta alle soluzioni della controversia) ha un’assonanza evidente con alcuni topoi della restorative justice.

La disciplina del processo minorile di cui al d.p.r. 448/1988 prevede espressamente la possibilità di sanzioni “a base riparativa” (es. svolgere ore di lavoro non retribuito a favore della comunità o la riparazione materiale del danno occorso alla vittima): lo spazio per la mediazione penale si è venuto a creare negli “interstizi” di tale normativa, attraverso nuove disposizioni che disciplinano la risoluzione anticipata della controversia penale attraverso forme consensuali. Si può oggi ricorrere a procedure di mediazione in fase preprocessuale, mettendo in primo piano le esigenze educative del minorenne e l’istituto di messa alla prova (artt. 28 e 29, dpr 448/1988) consente al giudice di sospendere il processo in corso e di affidare il minore ai servizi minorili per lo svolgimento di attività di osservazione, trattamento e sostegno. In questi casi, il minore dovrà seguire un programma che prevede diversi adempimenti, tra cui “prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato” (art.29). Così, se la riparazione e conciliazione avviene in sede di mediazione penale è possibile la chiusura anticipata del processo con declaratoria di estinzione del reato.

La mediazione penale funziona come un istituto che promuove la responsabilizzazione del giovane reo ma anche la ricostituzione di una forma di dialogo con la vittima.

Il dialogo è in effetti un elemento centrale della mediazione, così fondamentale che qualcuno ha opportunamente definito la giustizia riparativa come una giustizia essenzialmente dialogica. Il reato, infatti, ha creato delle rotture nella comunicazione tra due o più parti e ora è necessario riparare. La mediazione del conflitto ha a che vedere, in primo luogo, con la possibilità di riconoscere ed esprimere la propria e altrui sofferenza e di trasformarla attraverso il dialogo. E ciò non significa soltanto dare la possibilità alle parti di esprimere verità soggettive e suggestive capaci di suscitare una sintonia emotiva reciproca, superando la contrapposizione: occorre altresì un riconoscimento reciproco delle soggettività, nel rispetto delle differenze di ognuno. Questo vuol dire che la mediazione deve promuovere non solamente una comunicazione empatica e emotiva, ma anche evidenziare e vagliare le “ragioni” delle parti: ciò evidentemente scongiura un esito emotivistico, che può tradursi in un condizionamento emozionale del reo nel sentire la “colpa” e la “vergogna” per la sofferenza provocata, disgiunte da una vera presa di coscienza razionale.

Ripristinare un autentico dialogo non significa infatti suggestionare emotivamente, privando magari il reo della possibilità di vagliare criticamente le proprie posizioni e poi quelle della controparte e di replicare. Come sostiene Reggio, è necessario dialogare sulla base di argomentazioni razionali accettando la bilateralità del confronto, facendo appello all’intelligenza e alla libertà di ciascuno in un contesto di reciprocità.

Se ci pensiamo, anche lo stesso processo giudiziario tradizionale è improntato a una forma controversiale che consenta di far emergere una verità che appaia, in quel contesto, non refutabile dalle parti perché sopravvissuta a un debito vaglio argomentativo. Allo stesso modo procedono le restorative practices che, però, possono puntare non tanto alla confutazione dell’avversario, quanto alla ricerca di argomenti comuni alle parti, in un confronto non competitivo ma cooperativo, nel quale l’interlocutore non sia solamente un antagonista ma un osservatore attento a scorgere argomenti altrui componibili con i propri.

Il DJC-Dialogic justice community: la prima restorative practice filosofica

Nell’ottica di una giustizia riparativa e dialogica, viene realizzata quest’anno la prima applicazione delle pratiche filosofiche nel contesto della mediazione minorile, grazie alla collaborazione del Centro di mediazione penale del comune di Torino.

L’ingresso della filosofia nel mondo delle restorative practices sembra quantomai opportuno, considerando che “la capacità del mediatore in questo contesto è anche di tipo maieutico, poiché egli può aiutare le parti stesse a superare la loro contrapposizione, individuando argomenti comuni o proponendo soluzioni che possano meglio venire incontro a pretese altrui, non contestate” (Reggio, 2010).

Il conflitto è un elemento inalienabile dell’esperienza umana e puntare su una giustizia dialogica non significa considerarlo negativamente né tendere ad eliminarlo una volta per sempre: piuttosto, si tratta di evitare il suo radicarsi in una auto-assolutizzazione delle pretese del singolo individuo, per effetto della quale il dialogo viene soffocato nel prevalere violento di una parte sull’altra. Ripristinare il confronto dialogico tra vittima e offensore è il primo passo per spezzare la dinamica violenta del reato e ricostituire un equilibrio intersoggettivo fondato appunto sul dialogo.

Il reato stesso può essere inteso come l’indebita assolutizzazione della propria volontà individuale e delle proprie ragioni oltre che, nello stesso tempo, come un’indebita reificazione dell’altro. Per riparare al reato, quindi è necessaria non una pena  come imitazione della violenza o mera applicazione verticale di una norma, ma determinando una sanzione-soluzione ricercata e discussa congiuntamente tra persone, comunità e istituzioni. In questo senso, la restorative justice è una giustizia dialogica che “assume il dialogo – inteso in senso forte, non come semplice comunicazione ma come attuarsi della condizione intersoggettiva – come causa del proprio attivarsi, come limite del proprio agire e come finalità da perseguire” (Reggio, 2010). Il suo nucleo essenziale si radica sul terreno della struttura dialogica dell’essere umano.

Il DJC o Dialogic Justice Community mette il dialogo filosofico e i suoi strumenti a servizio di questo concetto di giustizia (e di umanità), promuove il dialogo tra autori di reato e vittime (dirette o indirette). Esso può essere realizzato coinvolgendo persone di tutte le età e attualmente viene proposto con il coinvolgimento di giovani rei e delle loro famiglie (che talvolta sono vittime dirette e altre volte indirette del reato).

Tra gli obiettivi principali di questo intervento filosofico di mediazione possiamo indicare:

1) il confronto dialogico – in forma scritta e poi eventualmente verbale – tra gruppi di autori di reato e gruppi di familiari;

2) la responsabilizzazione del reo attraverso la promozione della consapevolezza;

3) l’utilizzo della narrazione dei vissuti del reo e della vittima per lo sviluppo di un reciproco ascolto e confronto;

4) il progetto può favorire la riconciliazione tra i giovani e le famiglie, anche se tale esito non ne costituisce un elemento necessario. Piuttosto si dà vita ad un processo di ricomposizione come ripristino di un ordine perduto e restituzione di dinamismo alla storia del reato e alle vite che ne sono state coinvolte.

Per quanto riguarda i risultati attesi, sappiamo che i progetti di giustizia riparativa che prevedono una condivisione tra più vittime e rei, hanno una maggiore efficacia rispetto a quelle in cui il confronto si svolge unicamente tra le parti strettamente coinvolte da uno specifico fatto criminale. Da questo punto di vista, quindi, il DJC  può ipotizzare un impatto ottimale sull’esito positivo del programma, poiché basato fondamentalmente sulla condivisione comunitaria.

Inoltre, i giovani e le famiglie possono secondo questo format liberamente scegliere se partecipare agli incontri, né il DJC garantisce alcun vantaggio processuale o sconto di pena. Tale circostanza, unitamente all’adesione partecipativa su base assolutamente volontaria, garantisce la piena convinzione di chi decide di parteciparvi dell’utilità personale di questo percorso filosofico e dialogico. Si tratta di peculiarità possono elevare ulteriormente le percentuali di abbattimento della recidiva oltre a quelle, pur molto elevate, relative a strumenti, come la messa in prova, tipicamente endoprocessuali di natura premiale.

 

Una rivoluzione mentale

Il Mahatma Gandhi e Martin Luther King erano convinti che un movimento rivoluzionario potrà conseguire un autentico impegno alla non-violenza solo quando una rivoluzione mentale guiderà le persone a guardare ai propri obiettivi e ai loro oppressori con occhi nuovi, con spirito di amore e di generosità. La non-violenza può realizzarsi nella sola astensione dal compiere un atto violento; tuttavia, è solo attraverso una trasformazione interiore, dovuta alla sostituzione del risentimento con l’amore e la generosità, che la non-violenza può diventare anche creativa.

È davvero possibile liberarsi da quella che Gandhi definiva una mentalità ritorsiva (Nussbaum, 2017, p.125) e pervenire a un modo diverso di esprimere la propria rabbia per l’offesa ricevuta?

Lo è, certamente, solo a patto di convenire sul fatto che la vendetta non porta mai da nessuna parte mentre una disposizione generosa e dialogica ha molte più chance di farci progredire come umanità.

Operare una rivoluzione della mentalità significa innanzitutto due cose: riconoscere l’ingiustizia e la sua gravità e fare uno sforzo di riconciliazione che guardi al futuro. Inoltre, occorre lo sviluppo di un’empatia intesa come capacità di vedere come appare il mondo nella prospettiva dell’altra parte.

Chiaramente, il riconoscimento della verità di ciò che è accaduto – l’ingiustizia, il reato – è essenziale, perché non si può progredire verso un regime di giustizia e di fiducia senza insistere sull’importanza degli interessi umani che sono stati danneggiati a suo tempo, riconoscendo la dignità di quegli interessi nell’impegno che non si ripetano alcuni errori.

I processi sono il modo tradizionale di affermare una verità pubblica. Consentendo ai processi di svolgersi e avendo cura che si svolgano correttamente, una democrazia che funzioni regola i suoi conti con le ingiustizie. Stabilita la verità processuale, deve però anche subentrare l’opera di un diritto non solo formale ma capace di coinvolgere attivamente le parti in causa in una forma dialogica collaborativa.

Tutto questo non è utopia, poiché è già in atto una modificazione del sistema giuridico. Tuttavia, la rivoluzione mentale è assai lenta e non vincerà finché ciascuno non operi una trasformazione in sé stesso, imparando a non rispondere all’offesa con la collera bensì con la ragione. Il successo e la diffusione di una trasformazione risiedono nel cuore e nell’impegno di ognuno.

Quando proviamo il desiderio di “fare giustizia” è necessario tenere conto dell’obiettivo cui si deve mirare: “un mondo in cui uomini e donne possano vivere insieme”, secondo le parole di King.

“Costruire un mondo così richiede intelligenza, controllo e spirito di generosità. Un  tale spirito ha molti nomi: il greco philophrosyne, il latino humanitas, il biblico agape, l’africano ubuntu – la paziente e tollerante disposizione a vedere e cercare il bene anziché insistere ossessivamente sul male” (Nussbaum, 2017, p.365).

 

Bibliografia di approfondimento sulla Restorative Justice

Ceretti-Bertagna-Mazzucato (a cura di ), Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, Il Saggiatore, 2015.

Colombo-Davigo, La tua giustizia non è la mia. Dialogo fra due magistrati in perenne disaccordo, Longanesi, 2016.

Colombo G., Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla, Ponte delle Grazie, 2020.

Curi U., Il colore dell’inferno. La pena tra vendetta e giustizia, Bollati Boringhieri, 2019.

Franchi D. (a cura di), Raccontare la verità. Sud Africa 1996-1998. La commissione per la verità e la riconciliazione, Mimesis, 2009.

Mannozzi-Lodigiani (a cura di), Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, Il Mulino, 2015 (con un contributo di Umberto Curi)

Nussbaum M., Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, Il Mulino, 2017.

Reggio F., Giustizia dialogica. Luci e ombre della Restorative Justice, FrancoAngeli, 2010.

 

 

 

 

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